Spie e tradimento: le parti più sporche delle sporche guerre

Tra dicembre 2008 e metà gennaio 2009 sulla striscia di Gaza «Operazione Piombo fuso», che era solo un assaggio dell’eccidio si oggi. Me era già ‘cyberguerra’. Migliaia di messaggi via telefonino alla popolazione per farla fuggire. Mittente anonimo da vari server collocati a Cipro, in Siria e perfino in Italia. Il conflitto in Medio Oriente acquisiva così una nuova dimensione tecnologica, guerra nel cyberspazio, ma non si trattava di una novità assoluta perché già in secoli nuove armi affidate a spie o sabotatori avevano cercato di determinare le sorti di un conflitto con questa forma di lotta già dal Rinascimento o forse prima.


La repubblica di Venezia e la guerra chimica e batteriologica

Indubbiamente, tra i tanti antichi stati italiani, quello che ebbe maggior dimestichezza con operazioni di spionaggio e sabotaggio segreto ai danni del nemico fu la repubblica di San Marco, soprattutto per la spregiudicatezza con cui ne fece talvolta uso. Per allontanare dall’interno di una fortezza i suoi occupanti fu proposto il ricorso ad un olio ricavato da trementina e zolfo e perfino Leonardo da Vinci sembra abbia proposto un composto a base di acqua di tofana, estratto di bava di porco e di cane arrabbiato, veleni di rospi e tarantole.
Non bisogna nemmeno dimenticare che il ‘palombaro’ suggerito dallo stesso Leonardo poteva si immergersi per riparare le navi in bacino, ma anche per sabotare segretamente gli scafi della flotta turca con un trapano a mano. Sebbene l’avvelenamento dei pozzi e delle sorgenti fosse ritenuto esecrabile già dalla Bibbia (Deuteronomio), Venezia non se curò molto e la possibilità di avvelenare acqua o vino per eliminare dei nemici fu contemplata varie volte anche se non si trattava di eliminare un solo avversario, ma l’intero borgo o castello in cui si trovavano soldati, guardie, cortigiani e servitori.
Nel 1509, anno di grave crisi per Venezia che si trovò attaccata sia dai francesi di Luigi XII che dagli imperiali di Massimiliano I, si pensò di avvelenare tutte le cantine di Peschiera, cittadina in cui si trovava il re di Francia. Pochi anni dopo, sul confine orientale, il provveditore di Cividale d’intesa con il luogotenente di Udine propose di avvelenare ̶ «tosegare», come è scritto negli antichi documenti ̶ con una fornitura di vino tutti gli occupanti del castello di Tolmino per poi conquistarlo senza difficoltà. Durante la guerra di Cipro (1570) la stessa idea dell’avvelenamento delle acque venne però anche i turchi e le cose si complicarono generando una psicosi collettiva.

Attentati incendiari

Come è noto la repubblica ebbe un atteggiamento mutevole nei confronti dell’impero ottomano, nel senso che in determinati momenti ne cercò l’alleanza o la neutralità verso altre potenze ‘cristiane’, mentre in altre circostanze ingaggiò una lotta all’ultimo sangue. Furono quindi architettati diversi attentati incendiari nei confronti di navi turche isolate in Egeo o ormeggiate in piccole insenature dell’Adriatico, ma furono anche dati alle fiamme interi paesi nel confinante impero austriaco.
In pratica, travestiti da frati mendicanti, «esploratori» veneziani penetravano nei villaggi e provocavano gli incendi utilizzando un bastone di canna, tipico dei pellegrini, che però era cavo all’interno e riempito di polvere o zolfo. Nel 1518 il cronista veneziano Marin Sanudo venne in possesso degli atti processuali nei confronti di un certo ‘frate’ Cristoforo catturato in Austria e che aveva reso piena confessione ai giudici imperiali della sua attività non proprio sempre dedita alla preghiera.
A fronte delle accuse mosse dall’imperatore Massimiliano d’Austria nei confronti della Serenissima, la risposta del Senato veneziano fu netta: non senza aver prima manifestato grave costernazione per un’accusa così infame, con sdegno si rispose alla maestà imperiale che mai e poi mai la repubblica avrebbe fatto ricorso a mezzi così subdoli, nemmeno in tempo di guerra contro nemici della fede cristiana.
Le proposte di appiccare incendi alle navi turche tuttavia non cessarono, perché ancora nel 1695 si parlò di incendiare l’intera flotta turca: questa volta però i governanti veneziani, temendo tra l’altro che il proponente fosse un agente doppio, cioè contemporaneamente anche al servizio dei turchi, rigettarono l’abietto proposito.

Le intercettazioni

Un ultimo capitolo che testimonia la modernità e l’efficienza dei servizi segreti veneziani è quello relativo alla raccolta delle informazioni, ovvero alle intercettazioni della corrispondenza diplomatica e non solo. Tale branca cominciò a svilupparsi a partire dal XVII secolo, quando ormai la repubblica era avviata alla decadenza, ma proprio per questo necessitava di conoscere quali intenzioni ci fossero nei suoi confronti: in altre parole una questione di sopravvivenza.
Spesso i corrieri non raggiungevano la meta e ciò poteva significare due cose: ignoti banditi avevano rapinato il corriere, o si trattava di un’azione condotta ad arte. A metà del secolo successivo tutti gli ambasciatori veneziani nelle principali città europee erano al corrente dell’esistenza delle cosiddette «camere nere», ovvero di luoghi nei quali le lettere erano aperte e copiate.
Nel 1746 a destare preoccupazione è un nuovo metodo praticato a Londra: «un istrumento informa di stampa in un momento imprime li dispacci sopra una carta espressamente preparata con una specie di gomma che ne attrae da qualunque inchiostro l’impressione».
Il sistema praticato dagli inglesi, che si avvalevano tra l’altro di abili decrittatori e di una serie di timbri falsi di tutte le ambasciate, non era l’unico perché anche a Parigi, Vienna e Costantinopoli «tutto si apre». Si ottennero tuttavia dei piccoli successi come nel caso dell’ambasciatore presso la corte di Torino che riuscì a corrompere un ufficiale postala sabaudo ottenendo per due anni tutta la corrispondenza diplomatica in transito. La rivoluzione francese avrebbe alla fine travolto l’Europa e anche Venezia trovò una fine malinconica.

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AVEVAMO DETTO

Cristiana Rosaria Barsony-Arcidiacono in Mossad

 

 

 

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