Nelle due guerre mondiali che distrussero un continente e ridisegnarono il mondo, le trattative di pace furono relativamente brevi: il trattato di Versailles ad esempio fu firmato il 28 giugno 1919, esattamente cinque anni dopo l’attentato di Sarajevo avvenuto il 28 giugno 1914 e a sette mesi dagli armistizi del novembre 1918. Secondo il politologo francese Julien Freund, il problema di ogni trattativa di pace è sempre il riconoscimento del nemico, ovvero «dell’altro»: quando si ammette la necessità di trattare comunque con una controparte, conferendo quindi uno ‘status’ anche all’avversario, mentre gli obiettivi delle parti in causa sono ovviamente contrapposti e nel terribile mercato del ‘quanto vincere’ e del ‘quanto perdere’, il processo di pace inevitabilmente si allunga.
La vicenda forse più nota del XX secolo riguarda il conflitto del Vietnam, ma altrettanto interminabili furono la ricerca di un accordo per la Bosnia a metà degli anni Novanta o perfino per il nome che avrebbe dovuto assumere la Macedonia, nata anch’essa dalla dissoluzione jugoslava.
Nel ricordo collettivo le trattative per sottoscrivere la pace nella guerra del Vietnam si svolsero ufficialmente a Parigi tra il 1970 e il 1972, ma in realtà i primi contatti risalivano al 1968, senza contare altri tentativi a partire dal 1964 – almeno tre – tra i quali un piano di pace proposto dall’italiano Giorgio La Pira, al tempo carismatico sindaco di Firenze.
Benché oggi ricordarlo susciti una certa ironia, uno dei problemi delle trattative parigine fu la semplice sistemazione delle delegazioni attorno ad uno stesso tavolo. I soggetti presenti, oltre agli Stati Uniti, erano infatti tre: la repubblica del Vietnam (ovvero il sud, sostenuto dagli Usa), la repubblica popolare del Vietnam (ovvero il nord) e il governo rivoluzionario provvisorio del Vietnam del sud.
Una contiguità fisica allo stesso tavolo avrebbe significato che una delle parti riconosceva l’altra, cosa difficile o impossibile per due governi che rivendicavano la legittima sovranità sullo stesso paese e per di più in presenza di un terzo, il fronte di liberazione, che sosteneva la propria autonomia dai due altri soggetti, negando per di più legittimità alla repubblica del sud.
L’accelerazione si ebbe con l’elezione di Richard Nixon, avvenuta nel novembre 1972. Di fronte alle continue interruzioni nelle trattative la risposta americana fu duplice: da una parte la ripresa di massicci bombardamenti sul nord e dall’altra l’intensificazione dei contatti diplomatici che si materializzò in una fitta serie di incontri bilaterali di Henry Kissinger ad Hanoi, a Saigon e a Parigi.
Nixon sapeva tuttavia che la guerra era perduta, ma tenne fede alla promessa elettorale di disimpegno americano, mentre per lo stesso Kissinger la vittoria nord-vietnamita era solo una questione di tempo.
Oltre che da massacri spaventosi subiti dalla popolazione civile, le guerre nella ex Jugoslavia, iniziate nel 1991, furono caratterizzate da una serie di piani di pace internazionali proposti a partire dallo stesso anno: il primo presentato alle Nazioni Unite fu infatti il piano Carrington-Cutileiro, cui seguirono il piano Vance-Owen nel 1993 e poco dopo il piano Owen-Stoltenberg. Tutte queste iniziative fallirono, mentre la morsa attorno a Sarajevo non si allentava minimamente, né cessavano gli scontri nel resto del paese.
Fu solo alla fine del 1995 che, na Dayton, all’interno di una base americana, si riunirono i tre principali protagonisti del decennio balcanico – il serbo Milosevic, il croato Tudjaman e il bosniaco Izetbegovic – assieme ai mediatori degli Stati Uniti, della Russia e dell’Unione Europea rappresentati da Richard Holbrooke, da Igor Ivanov e dallo svedese Carl Bildt. Dopo tre settimane di trattative il 21 novembre ci fu il primo accordo, poi ratificato a Parigi il 15 dicembre.
Fu stabilito soprattutto il rientro dei profughi ai paesi di origine, ma di fatto, solo con l’accordo di Firenze sottoscritto nel giugno 1996, ebbe inizio la vera smobilitazione dei belligeranti e la riduzione collettiva degli armamenti sotto controllo internazionale.
A parte l’equità in sé dell’accordo, che fu subito oggetto di pesanti recriminazioni, la guerra era comunque cessata, ma tutta l’architettura istituzionale nata dagli accordi rivelò ben presto una fragilità di cui si parla tuttora. Soprattutto rimase fuori dagli accordi la questione del Kosovo, che esplose con tre mesi di bombardamenti Nato nella primavera del 1999.
Pensare che solo i conflitti più drammatici e sanguinosi impongano lunghe e delicate trattative è tuttavia ingenuo: la vicenda del nome ufficiale della repubblica di Macedonia, sorta dalla dissoluzione jugoslava, ne è esempio scuola. All’indomani dell’indipendenza, quella che nella federazione jugoslava costituiva la Repubblica Socialista di Macedonia, scelse semplicemente di chiamarsi Repubblica di Macedonia, ma il governo greco vi si oppose.
Da una parte la denominazione era la stessa di una regione greca confinante e dall’altra la nuova repubblica aveva assunto come simbolo nazionale la Stella di Vergina, un’antica rappresentazione del sole risalente a Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, commettendo secondo la Grecia un’appropriazione indebita, seppure ai danni di un regno dell’antichità.
Ad aggravare la situazione si aggiunse il nazionalismo greco i cui sentimenti furono contesi per i propri scopi dai partiti politici greci (i colonnelli golpisti). Il terzo motivo era il possibile insorgere di rivendicazioni territoriali, anche se – in questo caso – la Grecia dimenticava che nell’immediato secondo guerra, alla conclusione della guerra civile, aveva ‘ellenizzato’ forzatamente alcune zone vicine al confine deportando nelle isole dell’Egeo numerosi abitanti che si ostinavano a parlare macedone.
La soluzione delle Nazioni Unite, accogliendo il nuovo stato nel consesso internazionale, era stata l’adozione di una denominazione complicata: Repubblica ex Jugoslava di Macedonia, che alla fine nell’aggettivo ‘jugoslava’ finiva per perpetuare la memoria uno stato che davvero non esisteva più. La soluzione avvenne solo nel 2018 con l’accordo di Prespa in cui nacqua la Macedonia del Nord, terra dei popoli slavi, albanesi e greco macedoni che la condividevamo da secoli.