Niente palco ai delegati pro-Palestina, e i Dem rimuovono Gaza

Nessun intervento per i delegati pro Palestina. E il fantasma di Gaza è tenuto  fuori della porta alla convention democratica. Come le manifestazioni che sono sfilate per le strade attorno ogni giorno. Congresso a celebrare più che a parlare di politica e di quali scelte su Ucraina o Medio Oriente. «Nella corsa alla Casa Bianca la politica estera resta ai margini»

Obiezione di coscienza alle stragi di Gaza

La manifestazione del movimento che anche all’interno del partito democratico, da quasi un anno ha espresso nelle piazze, sui campus e in una miriade di proteste. «Alla fine la richiesta del movimento si è concretizzata nella richiesta di un intervento dal palco del palasport. Il negoziato con la dirigenza è proseguito fino agli ultimi minuti ma salvo clamorosi capovolgimenti la decisione del partito è stata negativa», scrive Luca Celada sul Manifesto.

La questione palestinese che divide

L’argomento palestinese troppo scottante e potenzialmente ‘lesivo dell’unità’ di partito, così attentamente curata a Chicago. Eppure, mercoledì, penultimo giorno di programma, sul palco sono saliti i genitori di Hersh Goldberg Polin, uno degli ostaggi rapiti da Hamas e tuttora prigioniero dal 7 ottobre. La loro dolorosa storia ha umanizzato la tragedia degli ostaggi. «Paradossalmente è stata l’unica menzione delle vittime innocenti della guerra di tutte le parti. Il padre di Polin ha detto di pregare per un accordo che porti a casa gli ostaggi e ponga fine alla sofferenza dei civili inermi di Gaza».

Le armi Usa su quella tragedia

Alla tragedia umanitaria lega all’uso spregiudicato e crudele di armamento quasi sempre americano, si somma la decisione prettamente politica di rimuovere le vittime da parte del governo Dem che ancora pochi giorni fa ha autorizzato altri 20 miliardi di dollari in armi e munizioni destinati in gran parte a cadere su ospedali, scuole e campi profughi nella striscia di Gaza, l’atto d’accusa netto di Celada.

Tra immoralità ed errore politico

Scelta moralmente equivoca che potrebbe incrinare i rapporti fra partito ed elettori decisivi in alcuni stati chiave, e già una prima associazione, la ‘Muslim Women for Harris-Walz’, ha annunciato la cessazione delle attività. La richiesta del coordinamento del movimento era semplicemente l’inclusione di una voce americana-palestinese per «raccontare la storia delle vittime della guerra». La loro esclusione ha invece trasmesso il messaggio inequivocabile che il partito progressista dell’unica nazione col potere di fermare il fanatismo omicida, ha deciso che l’argomento non è strategico per la sua campagna politica.

Cancellati da Gaza e dal congresso Dem

«Rimuovere le loro storie dalla nostra piattaforma», denuncia Alexandria Ocasio Cortez, «è partecipare alla deumanizzazione dei Palestinesi». Di fatto, l’atto finale di un anno di dura censura, silenzio imposto con cariche di polizia, commissioni parlamentari, licenziamenti, leggi liberticide. Come ha detto, mentre veniva espulso dal palasport, Liano Sharon, il delegato ebreo del Michigan che durante il discorso di Biden con alcuni altri aveva esibito uno striscione che chiedeva “Basta armi ad Israele”. «Stiamo finanziando un genocidio e questo deve finire. Come ebreo sono cresciuto nella consapevolezza che mai più significasse ‘mai più per nessuno’, mai».

Democrazia Nazional popolare, ma il futuro del mondo?

«Nella corsa alla Casa Bianca la politica estera resta ai margini», sottolinea un editoriale su Avvenire. La spinta su toni patriottici e emozionali -la famiglia, l’amicizia, la dedizione, la lealtà, l’inclusione- che costruiscono il consenso più di programmi precisi e dettagliati. Dinamiche che condizioneranno il risultato delle urne più di quello che i contendenti annunceranno in termini di strategia internazionale, spiega sconsolato di Andrea Lavazza. «A fare la differenza sono meno i programmi e più la sensazione che si crei un ‘noi’ coeso e combattivo, con una identità chiara e distinta, rispetto a ‘loro’ cui non si possono fare concessioni».

L’America che decide

«Dobbiamo rassegnarci a essere spettatori di una partita che si gioca soprattutto sugli umori, gli amori e gli odii interni di un Paese che vede perfino cittadini e famiglie spostare la residenza in Stati più omogenei al loro orientamento partitico-ideologico e affida, in base a un vecchio sistema elettorale, la scelta spartiacque di un presidente al voto di poche regioni dove il risultato è ancora in bilico. Ci piaccia o meno, questa è la dinamica che deciderà l’esito.

Da quell’esito, tuttavia, dipende, almeno in parte, l’evoluzione delle emergenze globali più impellenti (non dimentichiamo il clima, le migrazioni, gli obiettivi di sviluppo umano Onu) sui quali Harris e Trump hanno visioni divergenti. Dopo il momento dell’entusiasmo irrazionale, verrà l’ora delle scelte concrete. Ma solo dopo».

 

 

 

 

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