L’incidente si è verificato nell’area ad altissimo rischio (è contesa da decenni) delle Isole Spratly. Si tratta di una serie di scogliere e secche, il cui controllo è usato per far valere presunti diritti di sovranità nazionale. Prima strategica e poi economica. La Cina rivendica il 90% di superficie marina che le Filippine proclamano, invece, loro “zona economica esclusiva”. Pechino sostiene la sua tesi, attraverso un escamotage geografico internazionalmente non riconosciuto. I filippini si barcamenano, tra la rappresaglia e la più riflessiva opzione diplomatica. Per fortuna, dopo l’ultimo incidente, a Manila si è deciso di misurare i toni e di non gettare altra benzina sul fuoco. Come forse suggeriva qualcuno, interessato invece ad aizzare gli animi.
Finora i filippini hanno usato, alternativamente, il bastone e la carota. Nel senso che hanno mosso qualche pedina militare (senza strafare) e contemporaneamente si sono affidati alla trattativa cercando di smontare le diffidenze dei cinesi. Impresa difficile, perché Xi Jinping, dietro il Presidente Ferdinando Marcos junior, vede (con buona ragione) stagliarsi le sagome dei generali del Pentagono. A Pechino sanno che Washington ha spostato il suo pendolo strategico sull’Asia e su una competizione mortale (prima di tutto economica) con la Cina. E si attrezzano. Sanno anche che, quando occorre difendere gli interessi del sistema-America, la Casa Bianca non bada a spese. Giustificando sempre i suoi interventi, in nome e per conto “dei diritti umani e della democrazia”.
L’America sta tornando a militarizzare le Filippine, come erano in passato, al tempo della guerra contro il Giappone di Yamamoto: una specie di Pentagono nel cuore dell’Asia, a qualche centinaio di chilometri dalle coste cinesi. Quella che fu la Cuba di Castro alla rovescia. Non più tardi di tre settimane fa, il Segretario di Stato Antony Blinken e il capo del Pentagono, Lloyd Austin, hanno visitato Manila portando in dono mezzo miliardo di dollari. In armi, ovviamente. E rigorosamente Made in Usa. Una parte di questi soldi saranno spesi “per implementare le nuove basi americane nelle Filippine”. Il segnale è inequivocabile e fa intendere la volontà di “mostrare la sciabola” e anzi, all’occorrenza, di sguainarla. A questo proposito, il Segretario alla Difesa, Austin, ha dichiarato: “Questo livello di finanziamenti non ha precedenti e invia un chiaro messaggio di sostegno alle Filippine da parte dell’Amministrazione Biden-Harris, del Congresso degli Stati Uniti e del popolo americano”. Una minaccia bell’e buona, che otterrà di fare aumentare la tensione in tutta la regione.
Fra le altre cose, voci sgradevoli, attribuiscono al Dipartimento di Stato e al Pentagono pressioni sul governo filippino per una politica più dura nei confronti di Pechino. Nella sua visita a Manila di fine luglio, Blinken ha azzardato dichiarazioni inquietanti. Ha ricordato che Usa e Filippine sono vincolati da un trattato di mutua difesa, risalente al 1951. “Manteniamo la nostra ferrea alleanza con le Filippine – ha detto – che si estende agli attacchi contro le sue Forze armate, imbarcazioni o aerei pubblici, inclusa la Guardia costiera, ovunque nel Pacifico, incluso il Mar Cinese meridionale”. O Blinken bluffa, oppure siamo nelle mani di un incapace. Perché, viste le premesse, dobbiamo pensare che, se Marcos, dopo l’incidente di lunedì, avesse invocato l’applicazione del trattato del ‘51, allora Washington avrebbe potuto dichiarare guerra alla Cina.
Il problema principale, però, è di tipo strategico-militare e riguarda la dottrina americana del ‘conteinment’, cioè del cordone sanitario steso, grazie agli Stati-satelliti dell’Occidente, prima per arginare e poi per isolare definitivamente il colosso asiatico. E le Filippine sono parte integrante di un piano, per una nuova Guerra fredda ‘a bassa intensità’, che vede gli Stati Uniti catapultarsi in tutte le pieghe geopolitiche offerte dalle crisi nell’Indo-Pacifico.