
«Non so quando si insedierà il nuovo ambasciatore per la Siria, non so la data, ma in tempi rapidi» ha detto il 26 luglio il ministro degli Esteri Tajani alla Camera Di fatto l’Italia non ha mai chiuso formalmente l’ambasciata, delegando la rappresentanza diplomatica a un incaricato d’affari a Beirut. Ipocrisie. Adesso l’Italia si fa sponsor nell’Ue, per ‘riaprire le porte ufficiali’ dell’Ue, e con noi firmano Austria, Grecia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca, Cipro e Croazia. Secondo i nostri Esteri, «bisogna capire cosa fare per non lasciare a russi e altri il monopolio di una situazione».
In Siria -ricorda la Farnesina-, ha origine la più grande crisi di profughi del mondo. Dopo 13 anni – ha sostenuto Tajani – dobbiamo aggiornare l’approccio dell’Ue. Una politica più pragmatica per creare le condizioni per il ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati siriani (…)». Ovviamente, «Nessun compromesso su democrazia, inclusione, libertà fondamentali e diritti umani», è l’orazione d’obbligo. Con qualche problema storico sulle responsabilità del regime di Assad e alcuni dei suoi amici verso il suo popolo. Ma la realpolitik a volte impone le sue regole.
L’iniziativa guidata dal governo italiano non ha incassato molto applausi a Bruxelles, forse in attesa di qualche ‘placet’ Nato-Usa. Con Borrel, esteri Ue uscente, che frena ma non censura: «Sappiamo dove sta il regime siriano: è molto vicino all’Iran e alla Russia ma ci lavoreremo. Siamo sempre pronti a cercare delle soluzioni che possano essere a beneficio del popolo siriano». Frenata possibilista per non rompere. Di fatto però non esiste una strategia europea e l’iniziativa italiana arriva in un momento di difficili equilibri e intesa strategica tra Russia e Turchia che nell’altro ‘Palazzo di Bruxelles’. Comando Nato, suscita forti preoccupazioni.
Tanti giochi sporchi in corso su quel territorio. Truppe turche occupano per circa 30 chilometri quasi tutta la linea di confine per tenere le milizie curde (Forze di Protezione del Rojava – YPG) lontane dal territorio turco.
Circa un migliaio di militari statunitensi con etrovie in Iraq e Giordania occupano illegalmente un territorio al confine con la Giordania (al-Tanf) e tre aree in prossimità di pozzi petroliferi che Washington non vuole tornino nelle mani del governo di Damasco con i proventi dell’export petrolifero per la ricostruzione post bellica.
Ostilità certa dall’amministrazione statunitense o da Gran Bretagna e Francia (le tre nazioni che negli anni scorsi hanno bombardato la Siria), ostili al regime di Assad per le basi navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim (Latakya) concesse alla Russia.
Se si osserva la composizione delle nazioni che sostiene in Europa l’iniziativa italiana, evidente che si tratta di quelle che subirebbero direttamente l’impatto di nuovi flussi di migranti illegali siriani lungo la rotta terrestre dei Balcani e quelle marittime del Mediterraneo Orientale e Centrale, come sottolinea Gianandrea Gaiani. Ma non solo, visto che Assad è tornato pochi giorni fa da una visita a Mosca dove ha incassato la mediazione di Putin per far la pace col turco Ergogan. Tutto cambia, ma l’Europa spesso dorme.
Le crescenti proteste della popolazione turca per la presenza da molti anni di 3,5 milioni di profughi di guerra siriani e i costi di una prolungata occupazione militare dei territori siriani. Assad si impegnerebbe a impedire alle milizie curde di sconfinare in Turchia, e Mosca favorirebbe il reinsediamento dei profughi con infrastrutture da realizzare con il supporto finanziario di Emirati Arabi Uniti e altre monarchie del Golfo. Ma trovare una soluzione non sarà facile: a Idlib, dove vivono tre milioni di civili, le milizie jihadiste anti-Assad protette negli ultimi anni dai turchi, temono le rappresaglie di Damasco una volta partiti i militari di Ankara.
Diverse formazioni politiche irachene considerano i militari statunitensi “forze di occupazione” e lo stesso governo di Baghdad ha chiesto un piano per il ritiro. Il 24 luglio il Pentagono aveva annunciato un accordo con le autorità irachene. Non è stato reso noto un calendario del ritiro statunitense ma il governo di Baghdad ha chiesto che le forze della Coalizione comincino a ritirarsi in settembre e pongano ufficialmente fine alle loro attività entro settembre 2025, come riferito da media panarabi e iracheni.
Se l’accordo verrà confermato, dei 2.500 militari statunitensi oggi presenti in Iraq potrebbero restare tra un anno solo alcuni consiglieri militari e questo significherebbe anche l’abbandono dei tre presidi di forze statunitensi (a tutti gli effetti forze di occupazione) vicino campi petroliferi siriani, alimentate dalle basi in Iraq mentre il presidio della base di al-Tanf, nel sud della Siria, è garantito dalle forze statunitensi presenti in Giordania.