
Il 26 settembre 1815, a Parigi, dopo la sconfitta definitiva di Napoleone a Waterloo e l’approvazione dell’atto conclusivo del congresso d Vienna, gli imperatori di Russia ed Austria sottoscrissero con il re di Prussia il trattato della Santa Alleanza. Ispiratore lo zar Alessandro I che – probabilmente influenzato da una mistica tedesca originaria del Baltico che lo spronava a leggere la Bibbia – credeva davvero di conferire un carattere religioso all’alleanza e di imprimere una svolta di pace alle relazioni internazionali.
Per comprendere questo atteggiamento bisogna ricordare che i rapporti tra Napoleone e lo zar attraversarono fasi alterne: dalla simpatia iniziale per Napoleone ‘modernizzatore’, immagine dietro la quale si affacciava forse la necessità di riformare l’arretrata Russia, dopo una benevola neutralità, scoppiò la guerra della Terza coalizione vinta da Napoleone ad Austerlitz (1805).
Seguì un periodo di pace, ma ben presto agli occhi dello zar l’imperatore dei francesi divenne il peggiore dei tiranni, ovvero l’«anticristo» e si tornò alle armi. La sconfitta francese divenne alla fine l’occasione per proclamare un nuovo corso richiamando i valori evangelici dopo la scristianizzazione delle guerre napoleoniche, nate a loro volta dalle idee miscredenti della Rivoluzione francese.
Gli alti ideali di Alessandro furono però declinati in maniera diversa in Austria e Prussia, dove finirono per fornire il pretesto per cancellare ogni traccia di ordinamento liberale rafforzando il potere attorno «al trono e all’altare», ovvero alla monarchia assoluta per diritto divino.
Nel 1821 il sistema della Santa Alleanza, il cui principale braccio armato fu l’Austria, represse duramente i moti carbonari nella penisola italiana, ma nulla poté fare in Francia nel luglio 1830 quando fu rovesciato da una rivoluzione l’ultimo sovrano assoluto. Come aveva detto il ministro degli esteri inglese Castlereagh, l’alleanza era un misto di misticismo e insensatezza di cui dopo il 1848 praticamente non si parlò più.
Nel 1851 Hong Xiuquan si autoproclamò proclamò Re Celeste iniziando una guerra civile per rovesciare la dinastia Quing. Non si trattava di una delle consuete rivolte, ma di un fatto nuovo nella millenaria storia cinese: Hong Xiuquan, che si era convertito al protestantesimo, sosteneva di essere il fratello minore di Gesù Cristo, ma affermò anche che l’antica eresia ariana – che si era diffusa nel IV secolo d.C. negando la natura divina di Cristo – fosse nel giusto e che invece fosse in errore il concilio di Nicea (325 d.C.).
Le convinzioni di Hong – da un punto di vista teologico – erano indubbiamente un coacervo di concetti presi a casaccio e mescolati insieme, ma le antiche religioni della Cina furono ben presto bandite e i templi taoisti o confuciani trasformati in chiese della nuova fede o edifici pubblici, quando non furono semplicemente distrutti come avvenne per le biblioteche buddiste. Sorse anche una setta di ispirazione cristiana – alla stregua delle numerose società segrete che avevano segnato la vita della Cina – che sosteneva direttamente l’aspirante imperatore.
Hong fondò un regime teocratico, assolutista e militarizzato il cui primo scopo era la conquista della capitale del sud, Nanchino, ma stilò anche un elenco di riforme per modernizzare la Cina. L’atteggiamento degli occidentali fu però determinante: se da una parte ufficialmente non appoggiarono i ribelli, dall’altra li rifornirono di armi moderne tanto da mettere in crisi il potere legittimo. Quest’ultimo, ricorrendo ad ufficiali mercenari di origine europea, ne ebbe alla fine ragione.
Fu in questa fase che a comandare un esercito legittimista cinese arrivò un inglese: il generale Charles Gordon condusse infatti l’ultima battaglia contro i ribelli. Curiosamente, lo stesso generale Gordon, finì trucidato a Kartum in Sudan nel 1885 durante la rivolta del Mahdi, un musulmano che aveva proclamato la guerra santa e che in fondo carezzava un progetto teocratico nel centro dell’Africa.
Dopo due imperatori che invocarono a modo loro la pace ‘in nome di Dio’, un papa – che prima di salire sul soglio di Pietro era stato però un abilissimo diplomatico – si appellò invece alla forza del diritto e della giustizia tra le nazioni. Nel 1917 da tre anni la Grande Guerra insanguinava l’Europa, mentre appariva sempre più chiaro il carattere fratricida del conflitto, ossia una «guerra civile europea»: Benedetto XV, dopo aver tentato diverse mediazioni tra le potenze belligeranti ed osservato la più stretta neutralità, cominciò a prendere le distanze dalla dottrina tradizionale della ‘guerra giusta’, anche se imboccò un percorso di incertezze ed indecisioni.
L’autentica originalità dell’appello rivolto il 1° agosto dal papa ai capi di Stato belligeranti consisteva nel fatto che per la prima volta si superò la generica deplorazione della violenza proponendo invece condizioni concrete per l’apertura di trattative di pace e lasciando trasparire l’ipotesi perfino di una eventuale delegittimazione religiosa della guerra contenuta nella definizione di «inutile strage».
Ovviamente successe il finimondo. I governi decisero di continuare a perseguire i rispettivi obiettivi militari e politici e risposero in maniera diversa: cortesemente (Austria-Ungheria, Belgio e Stati Uniti), ambiguamente (Germania) o non risposero affatto (Francia e Italia). Poiché però il testo della nota diplomatica ‘riservata’, era stato reso noto dal «Times» di Londra, il dibattito che si accese al livello delle pubbliche opinioni nazionali divenne incandescente, soprattutto in Italia, dove dal 1870, i rapporti tra cattolici e Stato si potevano definire quantomeno complessi, anche per la mancanza di relazioni ufficiali tra le due sponde del Tevere.
I commenti alla nota furono quindi piuttosto variegati: i socialisti dell’«Avanti!» parlarono di «bella nota idealistica», mentre i democratici de «’Il Messaggero’ sottolinearono talune frasi «vaghe ed elastiche». Tra i rifiuti più celebri quello di Benito Mussolini dalle pagine del ‘Popolo d’Italia’: «manifestazione di propaganda banale e criminosa contro la guerra».