Sorprendendo molti analisti occidentali che avevano azzardato paragoni forzati tra Mao e Xi Jinping, i media cinesi hanno invece descritto quest’ultimo «come il vero erede di Deng Xiaoping», il mitico ‘Grande timoniere’. E il Plenum come esempio di uno sviluppo dei piani di riforma di Xi, che viene lodato «per il suo impegno a favore del settore privato». Anche se, avvertono i commentatori, lui, rispetto a Deng, sta affrontando molte circostanze avverse, definite con un’eloquente metafora, «ossa dure, difficili da masticare». Secondo il Wall Street Journal, vista la consistenza dei problemi, c’è proprio da rompersi i denti. Perché, nel comunicato finale, il Comitato centrale del Partito «ha evidenziato i rischi in diverse aree chiave tra cui il settore immobiliare, i debiti degli enti locali e quelli delle piccole e medie istituzioni finanziarie. Ha inoltre promesso di affrontare il problema di una domanda interna debole, che da molto tempo affligge l’economia cinese».
Il vero problema è che si è parlato tanto ma, nei fatti, si è stretto poco e niente. «Il documento finale non ha preannunciato grandi riforme – aggiunge il WSJ – ma ha ribadito le idee già avanzate in precedenza da Xi e da altri grandi esponenti del Partito». D’altronde, l’impresa era ai limiti dell’impossibile. Bisognava dimostrare al mondo che l’economia cinese è ancora flessibile e ricettiva, ‘aperta’ a qualsiasi investimento straniero. E che le accuse di dirigismo, concorrenza sleale e pesante ingerenza dello Stato in tutti i settori dove circolano denari, è solo una calunnia di certi circoli occidentali. Obiettivo: dare una mossa visibile a un sistema produttivo che, dopo la pandemia, gli shock energetici, l’alta inflazione e il crollo della domanda internazionale, non si è più ripreso pienamente. Perché la Cina è in crisi, anche se con connotati diversi, rispetto a quelli dei cicli economici negativi ai quali siamo abituati.
Quest’anno Pechino crescerà del 4,7%. È tantissimo. Ma se nei sistemi pianificati il tuo programma prevedeva il 5%, allora hai fallito. Una situazione che se non mette in dubbio una leadership (quella attuale) fin troppo forte, esige però delle ‘correzioni’ collaterali. Ed ecco che il Plenum ricorda a tutti la correttezza della «Dottrina Xi»: cioè la cosiddetta «Modernizzazione in stile cinese», una terminologia che esprime, in pratica, l’utilizzo di sistemi ‘diretti’ per aggirare, all’occorrenza, le leggi (e le libertà) di mercato. Certo, il Global Times ha cercato di veicolare il messaggio ‘aperturista’ del Plenum, sottolineando che le imprese di tutto il mondo apprezzano la svolta cinese. Ma la realtà dei fatti – sentenzia il Wall Street Journal – è che nel documento finale «non c’è alcun riferimento al ruolo decisivo del mercato, nell’allocazione delle risorse». Quindi, lo storico «Programma di riforma e apertura» lanciato da Deng Xiaoping nel 1978, resta sullo sfondo di un’evoluzione politica non sempre coerente. Anzi. Quando nel 2012 Xi giunse ai vertici del Partito, dichiarò, senza esitazioni, che le forze del mercato avrebbero avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell’economia cinese. Ma poi ricordò a tutti che la mano del Partito comunista doveva restare forte.
«Per mesi si era parlato del Plenum come di una sessione decisiva per le riforme, che avrebbe dovuto produrre un piano su come rilanciare l’economia cinese in modo che dipendesse maggiormente dalla domanda interna e meno dalle esportazioni all’estero e dalla massiccia spesa pubblica in patria. Ma invece di discostarsi dal solito gergo del Partito, l’incontro si è concluso con un comunicato dai termini vaghi, povero di dettagli e ricco di slogan, che ha lasciato sia gli economisti che i comuni cittadini cinesi a chiedersi quale fosse l’impegno della leadership nel cambiare e la sua capacità di attuare le riforme».
Incredibile: ma questa sintesi del Wall Street Journal, che sembra di ieri, è stata invece scritta per un altro Plenum, il 12 novembre del 2013. In undici anni, nella Cina di Xi, il Partito non si è mosso di un millimetro.