‘Primarie sorpresa’ nella corsa alla Casa Bianca prima di Biden azzoppato

Dietro le primarie: corsa alla Casa Bianca, ‘cavallo vincente, cavallo azzoppato’. Negli Stati Uniti le cosiddette ‘elezioni primarie’ costituiscono la prima selezione popolare di parte con la designazione del candidato ufficiale e del suo vice da parte del partito. Non sempre le cose sono andate come ci si attendeva, e non solo per il voto degli americani.
Per Biden, dopo l’infelice sfida tv con Trump, diventano problematiche le ultime primarie Dem di agosto, dove la riconferma del presidente uscente è parte della tradizione ma non una regola. E la tentazione di ‘cambiare cavallo’ per la corsa di novembre, è molto forte.

Un certo Harry Truman

Quando Franklin Delano Roosevelt affrontò le primarie democratiche per il suo quarto mandato nel 1944, le sue condizioni fisiche erano ben note: sebbene avesse solo sessantatre anni – che comunque per gli standard del tempo erano considerati un’età ‘rispettabile’ – oltre alla forma di poliomielite che ne limitava gravemente i movimenti, si era aggiunta una patologia cardiaca. Se in precedenza il presidente aveva sempre tenuto sotto controllo le sue debolezze, ricorrendo ad esempio a staffe di metallo nascoste sotto gli abiti per restare in piedi, questo sforzo non gli era più possibile.
Benché nessuno all’interno del partito democratico ne auspicasse la scomparsa, era però evidente la possibilità che non riuscisse a concludere il mandato per il quale si candidava. Sebbene il suo vicepresidente Henry Agard Wallace godesse di grande popolarità, una parte del partito – in previsione di una sua ascesa alla presidenza in caso di morte di Roosevelt – riuscì a convincerlo a cambiare il vicepresidente da candidare.
Wallace, che era stato il ‘braccio’ operativo del New Deal e un grande esperto di questioni agrarie, non era infatti amato alla Casa Bianca e perfino sospettato di simpatie socialiste. Come è noto alla morte di Roosevelt divenne presidente un certo Harry Truman dell’Illinois, praticamente uno sconosciuto, molto più gradito però ai vertici del partito ai quali il neopresidente ricorse spesso per ‘saggi consigli’.

Il giovane avvocato Nixon

Quando fu deciso dal partito repubblicano il nome del vicepresidente che avrebbe seguito le sorti di Dwight Eisenhower nella campagna elettorale del 1952, Richard Nixon – che pure aveva già ricoperto un incarico sia alla Camera dei rappresentanti che al Senato – non godeva di una popolarità molto superiore a quella di Harry Truman ai tempi di Roosevelt. Il trentanovenne ex avvocato della California era noto tuttavia per i sentimenti anti comunisti e per collaborato alla stesura di leggi che limitavano l’attività sindacale.
Nel corso della campagna elettorale si diffusero però delle voci insistenti sulla poca trasparenza nella gestione dei fondi: Nixon insomma aveva usufruito di un fondo ‘personale’ ricavato da quelli del partito. La vicenda finì però per dare maggiore prestigio al giovane candidato che trasformò in successo personale il discorso tenuto in sua difesa. Eisenhower vinse con un margine di sette milioni di voti e mantenne alla vice presidenza Nixon anche nel secondo mandato.
Quando Nixon si candidò alla presidenza nel 1960 dopo la designazione dei repubblicani che lo ritennero un candidato affidabile e potenzialmente in vantaggio, l’antagonista fu però John Fitzgerald Kennedy e il margine di sette milioni di votanti repubblicani scomparve. Sul voto influì molto probabilmente il dibattito televisivo tra i due candidati in cui Nixon si rivelò poco brillante, ma la vittoria di Kennedy fu dovuta a poco più di centomila voti di scarto.

Le sfide di Bloomberg

In tempi più vicini a noi ad attrarre l’attenzione sui curiosi meccanismi delle primarie fu la vicenda della candidatura di Michael Bloomberg che costituì la vera sorpresa nelle campagne elettorali del 2016 e del 2020. A parte l’anomalia del miliardario ex sindaco di New York che si candidava per contendere il posto ai politici, Bloomberg passò alla storia anche per un giudizio tutt’altro che benevolo nei confronti di un altro candidato: Donald Trump, definito «una minaccia per il paese». Poi Bloomberg si ritirò a favore di Hillary Clinton, ma Trump vinse comunque le elezioni nel 2016.
La sfida di Bloomberg si ripeté nel 2019, ricorrendo a cifre spropositate per la campagna elettorale e nonostante sino a poco prima avesse smentito ogni ipotesi di candidatura. Entrato in corsa dopo che i meccanismi si erano avviati e dopo aver speso una cifra stimata intorno ai trecento milioni di dollari, superiore a quella dello stesso ‘collega miliardario’ Trump.
Bloomberg nei sondaggi generali era valutato intorno al quindici per cento, abbastanza per un indipendente, ma poco per un candidato, soprattutto dopo le cifre investite nella campagna per mettere in piedi una struttura con duecento centri di propaganda e più di duemila addetti. Anche in questa occasione Bloomberg però si ritirò cedendo il passo a Joe Biden, senza dimenticare una generosa donazione al partito democratico.

Biden tra storia e attualità

Biden ineluttabile, vada come deve andare? Nessun candidato di peso all’interno del sua partito ha sfidato il presidente perché storicamente, primarie combattute nel partito al governo indeboliscono presidente e partito. È successo a Bush padre, a Carter, a Johnson (che addirittura finì per non presentarsi). Rischio di innescare un’aspra lotta per la successione.
Esisterebbero due strumenti formali per escludere un candidato. O ci pensa ‘Padreterno’ costringendo il ‘Democratic National Committe’ a sostituire di corsa il defunto, oppure, la rinuncia del candidato e, -mai accaduto-, rimozione per incapacità. È un’opzione considerata per pochissimo tempo nel 2016 per lo scandalo delle email di Hillary Clinton, ma poi accantonata perché troppo a ridosso del voto.

Biden non è ancora formalmente il candidato alla presidenza per il Partito democratico.L’investitura arriverà alla convention di Chicago di agosto. Biden ha stravinto le primarie, ma i delegati, a differenza del Partito repubblicano, non hanno l’obbligo di votarlo, e secondo le regole «devono solo riflettere in tutta coscienza i sentimenti di coloro che li hanno eletti».

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