Recentemente ho scritto sulla poetica del dono che ha animato la vita di Tullio, pittore e scultore gentile, mio padre. Il suo insegnamento di vita è stato lento e paziente. Prosegue nel tempo, anche adesso che il suo sorriso dipinge ricordi, scolpisce la sua traccia, lieve, semplice, di amore e dedizione. Senza mai sottostare alla furia delle vittorie e del successo, dei nomi e dei cognomi che contano, lasciando all’ombra del nespolo l’onere e l’onore di tramandare la sua arte.
La mia riflessione, con ammirazione e autocritica per non aver colto nel giusto tempo la meraviglia di questo dono, è scaturita naturalmente. E negli stessi giorni amici del cuore mi hanno fatto leggere un intervento di Lucio Saviani, filosofo e amico, che per altri sentieri andava coltivando simili concetti. Mi ha fatto piacere. Leggo coincidenze significative, segni che si rincorrono sulle mappe delle nostre esistenze eretiche. Il titolo è: “Mettersi a maggese”.
Il maggese in agricoltura è lo stato dei terreni messi a riposo per un certo tempo, per ritrovare fertilità. Il tempo giusto perché la natura faccia il suo corso, perché non sia schiava dell’industria che crea profitto e miopia, distruzione e frustrazione. Maggese è l’ozio che restituisce creatività, che ci libera dall’ossessione del progresso, del successo, della furia dei nomi e cognomi che contano, dell’esistere solo per correre senza meta sull’alta velocità del profitto di pochi che cancella il bene comune dei tanti, perdendo per strada la dolcezza dei tornanti, la sapienza dei sentieri rispettosi.
L’ombra del nespolo che testimonia arte, in un Polemos precedente, allude al necessario superamento del progresso come routine, nella società dei consumi dove il rinnovamento continuo di tutto è fisiologicamente richiesto e acriticamente accettato per la sopravvivenza pura e semplice di un sistema assurdo, che crea dolore, infelicità e povertà. E che non ha più nulla di sensato.
Cito interamente una frase di Saviani, che contiene il tutto, significativa: “La campagna, luogo adatto al veloce calpestìo degli eserciti, è diventata sinonimo di guerra e, per metafora, di ciò che accade prima delle elezioni. Ne siamo appena usciti. E oggi più di prima abbiamo visto come la politica abbia bisogno dei tempi lunghi della campagna. Dalla semina al raccolto c’è bisogno di tempo, e bisogna anche lasciar riposare la terra, non seminarla in fretta. Il terreno della politica è inaridito e seminare in terra cattiva porta frutti scarsi. Sarà più utile riparare gli attrezzi che non funzionano più, sarebbe più saggio mettersi a studiare per capire cosa sarebbe meglio coltivare in quella terra: meglio prevedere un periodo di maggese”.
Di questo parliamo quando discutiamo del dono dell’incontro, del fare cultura sulla soglia, del fare arte senza mercanti, del riprendersi la narrazione del proprio tempo, delle comunità che abitano civilmente i territori. Parliamo di sottrarsi, di non credere che tutto sia mediatico e che fuori dal cono di luce del successo ci sia il vuoto. Parliamo del fatto che non sia inesorabile la cattiveria, che si possa continuare a tessere il tessuto di una società diversa, che non ci si debba arrendere alla sconfitta della politica a vantaggio dei peggiori profitti privati in azione nella storia.
Parliamo di riprendere il filo, mettendo l’ozio apparente a servizio della sovversione, contro l’iperattivismo in apparenza rivoluzionario, ma al soldo di chi ci distrugge.