A parte le glorie effimere delle conquiste, la Prima guerra mondiale aveva lasciato l’Europa devastata e impoverita. Dichiarando sempre con intransigenza la propria ‘neutralità assoluta’ sin dal 1914, Matteotti aveva intuito lucidamente quali sarebbero state le conseguenze della guerra. Nella sua visione pragmatica si era reso conto di come i concetti espressi nei 14 punti di Wilson – quali la democrazia in tutti gli stati e l’autodeterminazione dei popoli – fossero usciti in realtà stravolti dalla conferenza di Versailles e risultassero assai poco efficaci.
La guerra aveva distrutto le ricchezze di un continente e trasformato i guadagni di pochi in sovra-profitti, aumentando così le differenze tra le classi sociali, ma non aveva in alcun modo risolto le questioni precedenti. Quanto al trattato di pace in se, Matteotti fu tra i pochissimi italiani a condividere il pensiero dell’economista inglese John Maynard Keines che aveva messo in guardia dall’infliggere alla Germania condizioni troppo onerose nel trattato di pace: una ‘pace cartaginese’ infatti – oltre ad arrecare ulteriori danni alla ripresa economica e quindi ulteriori sofferenze alla popolazione tedesca prostrata – avrebbe scatenato nuovamente i sentimenti nazionalisti contro il resto d’Europa finendo per innescare un altro conflitto.
Al contrario di molti leader politici del suo tempo Giacomo Matteotti viaggiò molto, e non sempre in condizioni regolari. Nel marzo 1924, essendogli stato ritirato il passaporto – atto inaudito nei confronti di un parlamentare –, espatriò clandestinamente in Francia: dopo una sosta a Parigi presenziò a due congressi del partito socialista francese a Marsiglia e a Lille e da qui si recò in Belgio, dove fu presente al congresso del partito a Bruxelles esortando alla difesa della libertà: «La libertà è come il pane, l’aria e l’acqua. La si apprezza pienamente solo il giorno in cui la si è perduta». Il 24 aprile fu a Londra dove incontrò i vertici del partito laburista e in colloquio con un giornalista inglese nacque anche l’idea di una collaborazione, con avvicendamento di corrispondenti, tra il giornale italiano «La Giustizia» e l’inglese «Daily Herald».
Fu nel corso di questi incontri e del fitto scambio di informazioni, che vennero alla luce anche vicende che riguardavano il malaffare italiano, come le concessioni di regime ad un’azienda petrolifera. Matteotti insomma, caratterialmente lontano dalle costruzioni teoriche di sistemi sovranazionali, si distinse per una notevole capacità nell’intrattenere una fitta rete di rapporti bilaterali all’estero. Nonostante le comprensibili diffidenze nei confronti degli ex nemici, Matteotti infatti tenne contatti con esponenti socialdemocratici austriaci e tedeschi e per il maggio 1924 era stato programmato un viaggio a Vienna.
Le reazioni della stampa straniera all’assassinio di Matteotti furono immediate ed ampie, testimonianza di quanto conosciuta fosse la figura del deputato italiano anche da sindacalisti ed esponenti socialisti europei. A Parigi il 23 giugno si tenne una grande manifestazione che raccolse più di trentamila persone.
Il giornale francese «L’Humanité» inviò un giornalista in Italia che dal 19 luglio cominciò una serie di reportage intitolati molto significativamente «Dans l’enfer mussolinien» (nell’inferno mussoliniano) che misero al corrente l’opinione pubblica francese su fatti italiani e sul ruolo del regime. Dopo la scoperta del corpo, quando ormai il delitto era diventato innegabile, seguirono altri resoconti e articoli con pesanti attacchi al Partito fascista imposto da Casa Savoia alla guida dell’ultimo governo prima della dittatura.
Anche in Gran Bretagna la stampa si occupò della vicenda, come in precedenza del resto si era anche occupata delle accuse rivolte al regime fascista dopo le elezioni, quelle stesse accuse rivolte da Matteotti già dal mese di aprile e una conseguenza delle quali era stata l’espulsione di un giornalista del «Daily Herald». A questa campagna stampa sulle vicende italiane ai giornali laburisti si aggiunsero anche quelli di ispirazione liberale e democratica.
Più caute furono le reazioni del maggior quotidiano inglese, «Times», anche se il suo direttore Henry Wickam Steed, che conosceva bene l’ambiente politico italiano essendo stato corrispondente da Roma prima della guerra, bollò senza appello «la tirannia brutale e intollerante» del regime.