Corti penali internazionali, molti crimini di guerra, pochi i criminali a pagare

Molto prima di Netanyahu ed Hamas, per ora solo imputati. Centocinque anni fa, quando il trattato di Versailes, giugno 1919, istituì una corte penale internazionale per processare l’ex imperatore di Germania Guglielmo II, accusato di violazione della «sacra autorità dei trattati» per aver scatenato la Prima Guerra mondiale. Non se fece nulla essenzialmente perché l’Olanda – paese nel quale si era rifugiato il Kaiser all’indomani della sconfitta e che tra l’altro non aveva firmato il trattato di Versailles – rifiutò sdegnosamente l’estradizione definendola «contraria ai propri principi di ‘onore internazionale’». Quasi come certa America oggi.

Le tredici Norimberga

Il maggiore punto di riferimento della giustizia penale internazionale nel XX secolo fu indubbiamente il processo di Norimberga sull’orrore dello sterminio ebraico, anche se in realtà nella stesse sede se ne svolsero altri dodici. La corte era stata istituita con l’Accordo di Londra (8 agosto 1945), dopo che trattative tra le potenze vincitrici erano state avviate almeno dal 1943: fu appunto l’accordo concordato in questa sede tra Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica a dar vita al tribunale (Charter of the International Military Tribunal).
Le accuse rivolte agli imputati – sulla base della documentazione prodotta dalla War Crimes Commission delle Nazioni Unite – riguardavano tuttavia anche comportamenti che non ricadevano strettamente nella categoria dei crimini di guerra, come i «crimini contro la pace» e i «crimini contro l’umanità» per commettere i quali era stata organizzata una «cospirazione».
Oltre ai ventiquattro principali imputati, tutte figure di spicco del nazismo quali ad esempio il maresciallo Hermann Goering, il ministro degli esteri Joachim von Ribbentrop e i generali Wilhelm Keitel e Alfred Jodl, furono giudicate anche quattro ‘organizzazioni’ criminali quali le SS (Schutzstaffel), la Gestapo (polizia segreta politica), il Sicherheitdienst (‘servizio di sicurezza’ che coordinava tutte forze di polizia del Reich) e l’organizzazione del partito nazista.
Seguirono dodici condanne alla pena capitale, ma ne furono eseguite solo undici perché prima dell’esecuzione Hermann Goering si suicidò con il cianuro. Nelle intenzioni degli alleati – soprattutto gli Stati Uniti – la corte non avrebbe solo dovuto giudicare e punire, ma costituire il primo passo di un nuovo ordine internazionale: l’insorgere della Guerra Fredda avrebbe però incrinato il clima di collaborazione internazionale e il progressivo ritorno della Germania alla propria sovranità fecero si che molti imputati in altri processi fossero condannati a pene minori e poi liberati all’inizio degli anni Cinquanta.

La corte dell’Aja e l’ex Yugoslavia

Il tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia) fu istituito nel 1993 con una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: dopo il processo di Norimberga fu la seconda volta in cui in Europa fu istituito un tribunale internazionale per giudicare crimini di guerra, commessi in questo caso in Croazia (1991-1995), in Bosnia (1992-1995), in Kosovo (1998-1999) e in Macedonia (2001).
Nelle intenzioni dell’organizzazione internazionale il tribunale avrebbe dovuto esercitare anche una funzione deterrente, ovvero ricordare alle parti in lotta che comunque i loro comportamenti sarebbero stati giudicati e puniti, ma le cose andarono diversamente, a cominciare dal fatto che le violazioni purtroppo continuarono.
Presso la corte dell’Aja furono comunque giudicati singoli imputati, secondo il principio della responsabilità penale individuale, e non ‘organizzazioni’ come nel caso di Norimberga: oltre ai consueti capi d’imputazione su singoli crimini di guerra, in prevalenza relativi al trattamento della popolazione civile regolato dalla Convenzione di Ginevra del 1949, si aggiunsero i «crimini contro l’umanità» e l’accusa di «genocidio».
Quest’ultima accusa era di estrema gravità, tale da comportare la pena dell’ergastolo, e fu riconosciuta nel comportamento di numerosi imputati coinvolti soprattutto nell’eccidio di Srebrenica (8500 vittime civili). I processi scatenarono però furibonde reazioni di opinione pubblica, soprattutto in Serbia, dato che tra gli imputati il gruppo più consistente era appunto di origine serba: non mancarono tuttavia energiche proteste in altri paesi come in Croazia per la condanna in primo grado del generale Ante Gotovina (assolto in appello), o in Kosovo nel caso dell’albanese Ramush Haradinaj, ritenuto un persecutore della minoranza serba già prima del 1999, che tuttavia fu assolto per ‘mancanza di testimoni’.
A conclusione dei numerosi processi non furono eseguite sentenze capitali (solo l’ex presidente serbo Milosevic morì in carcere per un infarto), ma si ebbero tuttavia varie condanne all’ergastolo: moltissimi giudizi, dopo l’appello, furono anche mitigati o perfino modificati in assoluzioni.

Il tribunale per il Ruanda

Il tribunale fu istituto nel novembre 1994 con risoluzione del Consiglio di sicurezza per giudicare i responsabili del genocidio, avvenuto in Ruanda tra l’aprile e il luglio dello stesso anno, nel quale persero la vita centinaia di migliaia di ruandesi inermi. Nonostante l’enormità di quanto accaduto, purtroppo l’opinione pubblica occidentale ha seguito con minor interesse le vicende di questo tribunale che comunque pronunciò un centinaio di sentenze comminando pene molto pesanti e riconoscendo nel comportamento degli imputati un reato di estrema gravità quale il genocidio.
Una delle figure principali tra gli imputati fu Jean Kambanda, primo ministro ruandese all’epoca dei fatti, che fu rinviato a giudizio nel 1997 per reati quali genocidio, concorso morale e incitamento e numerosi altri crimini contro l’umanità: fu quindi condannato all’ergastolo. Un altro politico ruandese coinvolto fu Jean-Paul Akajesu, sindaco della città di Taba, che non solo fu ritenuto responsabile della morte di oltre un migliaio di suoi concittadini, ma anche dello stupro collettivo di migliaia di donne tutsi, partecipando talvolta personalmente alle azioni criminose, e subì per questo la stessa pena.
Un altro gruppo di imputati al quale furono inflitte pesanti condanne fu quello dei cosiddetti ‘uomini dei media’: è tristemente noto infatti che, attraverso le trasmissioni radiofoniche, fu condotta una vera e propria campagna di incitamento al massacro e alla quale parteciparono giornalisti o personalità pubbliche. Resta infine da sottolineare che ai processi non presero mai parte giudici ruandesi, ma solo stranieri, e che a tutt’oggi molti condannati sono detenuti in altri paesi quali ad esempio il Mali.
Ultimo in ordine di tempo, arrestato a Parigi nel 2020, dopo ventisei anni di latitanza sotto falso nome, Félicien Kabuga, proprietario della radio Mille Colline: nel 2023, a causa dell’età avanzata (ottantasette anni), è stato dichiarato non in grado di subire un processo. Nel caso ruandese insomma la giustizia internazionale fu molto dura, forse più che in altre terribili vicende.

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