L’attacco giapponese agli Stati Uniti rappresentò un’orribile sorpresa, ma anche una svolta radicale nel modo di pensare dell’America, nell’immaginare se stessi e un proprio ruolo internazionale. Fino all’adesione del Giappone al Patto d’acciaio perfino un americano come il generale Mc Arthur non credeva a un guerra imminente con l’impero del Sol Levante: lo dichiarò in un discorso pubblico a Manila nel settembre 1940 e il giorno dopo i giornali pubblicarono la notizia del trattato.
Wendell Wilkie, candidato repubblicano alla presidenza, a poche ore dall’attacco, disse che una guerra non era affatto auspicabile e per questo impossibile.
Alle Hawaii, alla stazione radar che avrebbe dovuto segnalare movimenti avversari sospetti; quando il soldato Joseph Lockard segnalò al proprio superiore, tenente Kermit Tyler, una robusta forza aerea in avvicinamento ad una velocità stimata di almeno duecentocinquanta chilometri orari, l’ufficiale rispose: «Bene, non preoccuparti di questo … non è niente». Il Giappone come avversario clamorosamente ignorato e sottovalutato.
Nel corso della guerra furono le forze dell’Asse a diventare l’impero del male al quale si dovevano imporre una resa incondizionata e un duro trattamento post-bellico. I draconiani piani del capo del dipartimento del Tesoro Hans Morgenthau nei confronti della Germania – poi accantonati, prevedevano la deindustrializzazione degli sconfitti – rispondevano non solo all’esigenza di dare un assetto stabile all’Europa, ma soprattutto ad imperativo quasi etico: la punizione dei malvagi.
Cominciò a rafforzarsi l’idea che gli Stati Uniti dovessero svolgere un ruolo universale a partire dalle corti di giustizia di Norimberga e Tokio, dove la punizione dei crimini e la responsabilità di aver provocato la guerra, si mescolò con la fondazione di un nuovo ordine internazionale garantito da una potenza che si ispirava a valori di equità e giustizia.
Dati i precedenti si comprende bene come un aspetto fondamentale della guerra fredda si fondò proprio sulla rappresentazione del nemico contrapposta all’identità americana e al suo ruolo sulla scena internazionale, un processo cioè che si era già manifestato durante la guerra con Giappone e Germania. Sugli aspetti rimasti poco chiari dell’attacco alle Hawaii fu disposta una lunga e accurata inchiesta il cui scopo dichiarato era far luce su quanto accaduto – disperdendo anche tutte le ipotesi complottiste –, ma soprattutto evitare che un episodio analogo si ripetesse in caso di attacco sovietico.
Si verificò a partire da questo episodio una sorta di ‘transfer’ rappresentato dal totalitarismo inteso in primo luogo come minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti, ma anche come minaccia all’ordine internazionale in costruzione.
Fino alla cosiddetta ‘distensione’, che fu tutt’altro che lineare, mancando qualsiasi interazione con l’avversario e anche ogni forma di legittimazione reciproca, paradossalmente l’equilibrio fu quello del terrore, basato cioè sugli arsenali nucleari.
Sulle analogie degli effetti prodotti sull’opinione pubblica dall’attacco giapponese del dicembre 1941 e dall’attentato terroristico alle Torri gemelle si è già detto e scritto molto. Riapparve l’immagine dell’attacco proditorio che rendeva necessaria una risposta eccezionale, ma soprattutto ricomparvero le antiche rappresentazioni di se e del nemico.
La politica tornò ad oscillare tra unilateralismo e multilateralismo in forme molto radicali; riapparve il concetto dell’unicità del modello americano come esperienza unica e speciale e tornò la vecchia immagine dell’avversario come nemico assoluto e quindi illegittimo. Dopo l’11 settembre la lotta globale al terrorismo riuscì a mobilitare forze paragonabili a quelle impegnate durante la Guerra fredda.
Come scrisse lo storico americano Anders Stephanson, lo stesso linguaggio politico fuse insieme «protestantesimo radicale, repubblicanesimo classico e pensiero liberale» in un modo comprensibile però ai soli americani. E poco comprensibili ai non americani possono sembrare anche altri eventi più recenti.