Globalizzazione del debito. Se il Pakistan, l’Islam con l’atomica, esplode come lo Sri Lanka

Il gigante islamico tra India e Cina, ha le bombe atomiche ma non i soldi per risanare le finanze pubbliche e cerca nuovi prestiti per potersi pagare i vecchi debiti.
Il caso Sri Lanka può diventare un “modello critico”, una sorta di campanello d’allarme, di ciò che potrebbe capitare in altre vaste aree del pianeta, che hanno debolezze finanziarie simili?
Benzina e altri carburanti aumentati di un astronomico 90 per cento. Alimentari che inseguono una inflazione al 21,3 per cento e in crescita.

La globalizzazione del debito

Secondo la Direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, la globalizzazione ha comportato delle evidenti “asimmetrie” di sviluppo. I Paesi più poveri, per bruciare le tappe della crescita, sono stati indotti, frequentemente, a indebitarsi fuori misura. Specie per alimentare gli investimenti infrastrutturali. Il collasso economico dello Sri Lanka, il suo default e la conseguente esplosione della struttura sociale, hanno origini precise, che possiamo ritrovare in altri sistemi-Paese di maggiori dimensioni. E di importanza infinitamente più rilevante dell’isola in questione. “I venti contrari globali – sostiene la Georgieva, intervistata dalla BBC – come l’aumento dell’inflazione, il rialzo dei tassi d’interesse, il deprezzamento della moneta, gli alti livelli del debito e la diminuzione delle riserve di valuta estera, colpiscono altre economie della regione”. Quali?

Dopo Sri Lanka il Pakistan

Beh, il “candidato” da tenere d’occhio, non solo per le sue dimensioni, ma anche per il suo “peso” geopolitico, ci lascia alquanto inquieti: il Pakistan. Un gigante, abitato da 200 milioni di mussulmani, potenza atomica e arcinemico di un’altra potenza atomica (l’India), amico dei cinesi. E degli americani. O, almeno, così pensano loro. Senza dimenticare che il Pakistan, quasi tutto sunnita (di quelli tosti), è stato e continua a essere il “backstage” di ciò che succede in Afghanistan. Da Peshawar verso Kabul, attraverso il Waziristan, passa di tutto: merci, carburante, cibo, esplosivi, Kalashnikov e terroristi. L’Import? Tonnellate di papavero da oppio, coltivato sotto l’egida della “multinazionale” talebana, destinato, dopo essere stato raffinato, a rifornire i mercati dell’eroina di mezzo mondo.

Se 200 milioni di affamati mordono il mondo

Ma, evidentemente, i problemi sociali del Pakistan sono troppo estesi per essere superati da un’economia “della sussistenza”. Il Paese ha istituzioni “democratiche” (sulla carta), ma il tribalismo politico e un certo disprezzo per le regole rendono la governance “tortuosa”, per usare un eufemismo. In situazioni di questo tipo, il consenso viene letteralmente comprato con i sussidi statali, vendendo beni di prima necessità sottocosto. È un modo per tenere la gente gabbata e contenta ed evitare esplosioni di rabbia popolare, che potrebbero dilagare a macchia d’olio, diventando incontrollabili. Questo, però, nei periodi di vacche grasse, perché, quando la ruota gira e la congiuntura si fa sfavorevole, allora bisogna stringere i cordoni della borsa.

Pressioni Usa anti Cina

Però, allo scenario fin qui delineato va aggiunta un’altra tessera. Fondamentale. Lo scorso aprile l’allora premier Imran Khan, messo sulla graticola dall’opposizione, si è dovuto dimettere dopo una battaglia costituzionale, accusando gli Stati Uniti di “ingerenza”. Il nuovo Primo ministro, Shehbaz Sharif, fra le altre cose, ha annunciato un cambio nella politica economica del Paese. Una linea che appare più aderente ai principi monetaristici dell’FMI e degli Stati Uniti. Il governo di Islamabad si è indebitato fino al collo. E siccome il Fondo monetario presta i soldi, ma non fa beneficienza, vuole “garanzie”. Cioè, ti dice: metti i denari da parte, per restituirli, e taglia la spesa pubblica. Detto fatto. In Pakistsn il nuovo governo ha cominciato a tranciare i sussidi con le cesoie.

Tagli insostenibili per la popolazione

Solo a maggio il prezzo della benzina (e di altri carburanti) è aumentato di un astronomico 90 per cento. Mentre merci varie, ma soprattutto gli alimentari, a giugno hanno raggiunto il picco degli ultimi 13 anni, portando l’inflazione al 21,3 per cento, con un trend di ulteriore crescita. Per far fronte all’emergenza, il Pakistan, in meno dì un anno, ha bruciato la metà delle sue riserve in valuta estera. E ora arranca, cercando prestiti, per saldare vecchi debiti. E, come un cane che si morde la coda, domani dovrà trovare nuovi creditori, per ripianare i debiti che sta facendo oggi. In un ciclo da cui si esce, spesso, traumaticamente, con un default o con un improponibile aumento delle tasse. E comunque, in entrambi i casi, con la folla tumultuante e inferocita nelle piazze.

Prima le tasse o prima le piazze?

Islamabad sta giocando la carta delle tasse. Ha imposto il 10 per cento in più alle industrie, per raccogliere 2 miliardi di dollari da girare al Fondo monetario. Se ci riuscirà, forse altri Paesi potrebbero essere rassicurati e indotti ad aprire nuove linee di credito. Secondo gli analisti di Standard and Poor’s, Arabia Saudita ed Emirati sarebbero pronti a farlo. Ma la situazione per il nuovo premier, Sharif, non è facile. Anzi. Per risparmiare, ha invitato i pakistani “a bere non più di una o due tazze di tè al giorno”. Come dire ai napoletani di prendere un caffè alla settimana.

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