
«La stampa britannica titolava “Kissinger: l’Ucraina deve cedere territori alla Russia”, e sui social si scatenò l’ira funesta del pubblico non leggente». Furente Zelens’kyj, che dava indirettamente a Kissinger del nazista, col suo ormai noto vizio parlare troppo e dire cose esagerate. Peccato che l’ex segretario di Stato non abbia mai detto quelle cose. Certo, non fa sforzi per accattivarsi il pubblico ucraino. Ma procede a colpi di storia e di politica.
Quando a Davos si augura che ai negoziati Kiev «sappia abbinare all’eroismo mostrato sul campo di battaglia un approccio saggio verso l’equilibrio europeo e mondiale», gli interessati ricordano un altro suo tagliente giudizio. Cioè quando nel 2014, a Crimea quasi persa, scriveva: «L’Ucraina è indipendente da soli 23 anni; dal XIV secolo è sempre stata sotto un dominio straniero. Non sorprende che i suoi leader non abbiano imparato l’arte del compromesso, ancor meno quella della prospettiva storica». «Non proprio un fan dell’arte di governo kievana», annota opportunamente Federico Petroni.
‘Quo ante’ quanto? Non sperare di riprendere con la forza Crimea, Donec’k e Luhans’k, fa intendere il saggio centenario. «Negozierete un qualche recupero al tavolo delle trattative» Che è poi quello che sostiene Zelens’kyj senza dirlo apertamente. Ma i messaggi di Kissinger che contano sono altri; tre, tutti diretti al decisore americano, con non troppo velata critica all’attuale presidenza.
Secondo Kissinger, la vera linea invalicabile nella guerra d’Ucraina non è soltanto geografica e non riguarda soltanto l’Ucraina, ma è quella di scongiurare uno scontro diretto con i russi. «Se il governo di Washington non ha un piano per gestire le conseguenze di un conflitto aperto», buttà lì con malizia il vecchio smaliziato. «Un conto è aiutare Kiev a difendere la propria sovranità, un altro è sbandierare ai quattro venti che Putin ‘non può restare al potere’ o voler indebolire in modo permanente le ‘capacità internazionali di Mosca’». Memoria di Corea anni ‘50, per chi ama la storia.
L’amministrazione americana sembra ascoltare, o quasi. A fine maggio Biden scrive sul New York Times che non farà pressioni in privato o in pubblico su Kiev affinché ceda territori. Ma ricorda che Zelens’kyj non ha voluto ascoltare i suoi allarmi nel preguerra, quasi a dargli la colpa dei recenti rovesci. E la variegata intelligence Ussa si lamenta con la stampa della segretezza ucraina e di sapere più dei movimenti russi che delle operazioni di coloro ai quali pagano lo sforzo bellico. La volontà di avere voce in capitolo sul piano di battaglia e sulla scelta dei bersagli.
Sgradite a Kiev persino dichiarazioni del ventriloquo Nato Stoltemberg: «La pace è possibile in Ucraina. La sola domanda è quanto siete disposti a pagare per questa pace. Quanta terra, sovranità, indipendenza, libertà e democrazia siete disposti a sacrificare. È un dilemma morale molto difficile».
«La ‘fatica ucraina’ serpeggia in particolare in satelliti in odore di insubordinazione come Francia e Germania, che vorrebbero approfittare del momento per aumentare il margine di manovra dall’America», scrive Petroni prima dell’esolodere anche della crisi italiana, che non è soltanto scemenza di politici per caso, ma che esprime più diffusi e seri timori di prossimo futuro. L’analisi storico politica di Limes va molto oltre, ma a questo punto dovete andare e cercarvela voi.
Gli Usa con Kiev ma coi russi ancora lontani dai con fini Nato. La minaccia della paura baltica a Kaliningrad. La Russia è un fattore decisivo per la stabilità dell’Europa, spiega la storia e ripete Kissinger. Russia-Cina, «non antagonizzarli», sarà la storia a farlo. L’errore di Xi su una veloce vittoria russa. Washington e Pechino devono imparare a comportarsi, a convivere. Le minacce globali passate dall’accumulo di potenza da parte di uno Stato dominante, alla disintegrazione della potenza e l’aumento del numero di territori non governati.
In sintesi: Kissinger teme Caoslandia più di Mosca. E a quanto pare anche di Pechino. Un ordine mondiale complicato dall’apparente mancanza di codici condivisi, dal carattere globale e non europeo del sistema, dal gran numero di potenze in ascesa o rientranti nella storia. La lezione di Kissinger è che nonostante tutto occorre provarci. Per non abbandonarsi al nichilismo. E non scivolare in una guerra totale.