
Dal conflitto russo americano in Ucraina, la previsione di Limes, «nascerà un nuovo disordine mondiale. Non un ordine, perché chiunque vinca, o sopravviva, non sarà in grado di riprodurre la Pax Americana. Nemmeno l’America. Washington resterà il Numero Uno per carenza di alternative. Ma il capoclassifica non potrà ostentarsi egemone globale, né forse lo vorrà. Ridurre ad unum questa Babele d’otto miliardi di anime e diverse centinaia di attori o comparse geopolitiche è affare di Dio, non di Cesare. Per quanto intuiamo, Dio non è interessato all’impresa».
Guerre mondiali sempre tra imperi. Le prime due per spartirsi i resti dell’impero britannico. Il dopo Impero Americano che prima o poi verrà, con sarà in Ucraina e con la Russia, l’analisi. «Se anche Putin vincesse in Ucraina non potrebbe scalzare gli Stati Uniti dal trono. Se invece prevalessero gli americani, presenterebbero il conto non tanto ai russi, impossibilitati a saldarlo, ma al resto del mondo. A cominciare dai neghittosi ‘alleati’ euroccidentali».
«Quanto all’Italia, sarà quel che sarà indipendentemente dalla sua volontà. Siamo in modalità limitazione danni. Nel faccia a faccia tra colossi che ridisegnerà il disordine del mondo, i pesi medi o leggeri scadono automaticamente di categoria».
E oltre le propaganda di facciata via giornalismo trombettiere (Kiev: «Un milione di soldati per riconquistare il Sud del Paese»), nell’ultimo mese americani, russi e ucraini hanno cominciato ad accorgersene. A Washington, semi nascosto, prende corpo il partito del dialogo con un articolo sul New York Times in cui Biden stabilisce tre punti abbastanza incoerenti con quanto proclamato fino allora: «non vogliamo fare la guerra alla Russia né detronizzare Putin, non ci interessa prolungare lo scontro solo per indebolire i russi. In chiaro: non moriremo per Kiev».
Qualcosa si muove anche sul fronte russo. L’ambasciatore a Washington, Anatolij Antonov, si lascia fotografare in fitto dialogo con l’ex inviato statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad. L’emissario di Putin concorda con il messo di Biden, che ammette: «Abbiamo bisogno di un accordo». Kiev soffre la discreta pressione americana, che suona più o meno così: «Non vi abbiamo firmato un assegno in bianco, vi diamo le armi ma voi dovete dirci fino a dove volete arrivare (leggi: arretrare, n.d.r.). Altrimenti ve lo diciamo noi».
La risposta informale di Zelens’kyj, sbilanciato dai suoi enfatici proclami di vittoria, interpretata da Limes: «Alla Crimea e al Donbas potremo forse rinunciare, ma sul Sud non trattiamo: Kherson e Odessa sono vitali per noi». Tradotto: la penisola di Crimea deve tornare una Kaliningrad sul Mar Nero, separata via terra dal resto della Federazione Russa, Donbass permettendo. Ed è questa le vera battaglia che si sta combattendo in queste settimane che a quella latitudini già preludono all’inverno.
La decisione lituana di imporre un mezzo blocco commerciale a Kaliningrad conferma che nello scomposto schieramento occidentale «il partito della guerra da combattere fino all’ultimo ucraino onde dissanguare la Russia resta attivo». Certamente fra baltici e polacchi, con robusto supporto britannico, quest’ultimo tutto da verificare con la caduta rovinosa di Boris Johnson. Ma anche a Washington, in schieramento bipartisan tra democratici e repubblicani. Ma –monito pesante- «la guerra limitata fra Russia e America non può trascinarsi a lungo senza rischiare l’incidente o la provocazione capace di volgerla in apocalisse nucleare».
L’altezza della posta spiega perché i duellanti giochino a carte coperte. Per non farle leggere al nemico? No: per evitare che le si scopra oscure. In attesa che qualcuno fissi l’apertura minima sino al traguardo massimo. Solo allora Putin e Biden concorderanno la telefonata che manca da cinque mesi. Perché chi fa la guerra decide la pace. Nel caso, la tregua. Ucraini permettendo.