Contro l’inflazione mangia salari sciopero del gas norvegese e i prezzi volano

Gas, lo sciopero in Norvegia mette a rischio il 60% delle esportazioni. Ripercussioni anche sulla produzione di petrolio. Effetti pesanti sul prezzo del gas che martedì ha raggiunto prezzi record, superando i 170 euro al megawattora.
Lo sciopero degli addetti alle piattaforme petrolifere e del gas norvegesi nel Mare del Nord potrebbe avere conseguenze anche per l’approvvigionamento di altri Paesi europei.
I prezzi crescono molto più degli stipendi e la qualità della vita crolla. Una tassa occulta che colpisce, in particolare, i più poveri.
Avvitamento perverso e l’Europa a passi veloci verso il suicidio

O si controlla l’inflazione o sarà crisi nera

Questa non è più una “tempesta perfetta”. No, è un vero e proprio iceberg, contro cui si è schiantato il “Titanic” Europa, mentre l’orchestrina continua a suonare, con l’acqua alle caviglie. Il Vecchio continente si sta progressivamente avvitando in una crisi “multiorgano” (geopolitica, economica e sociale) di cui non si vede il fondo. L’emergenza energetica è stata clamorosamente sottovalutata. Finora, a Bruxelles, pur a fronte di una situazione internazionale oggettivamente catastrofica, hanno saputo solo mettere “pezze”. Ma questa volta, il buco è quanto una voragine. La notizia di ieri è che gli scioperi hanno bloccato parte della (indispensabile) produzione di gas e petrolio norvegese. Una mazzata. Non tanto e non solo per le quantità coinvolte (tra il 10 e il 15%, per ora), quanto piuttosto per le “aspettative”, cioè per l’esponenziale aumento delle incertezze che circondano i mercati dell’energia. E non solo quelli.

Bollettino di guerra

Ieri il prezzo del gas ha toccato un massimo (astronomico) di 167 euro per Megawattora, cioè il 500% in più di un anno fa. Con questi chiari di luna, è meglio dirlo seccamente e senza indulgenze, l’Unione porterà le economie (e le società) europee al collasso. La stessa apertura del Financial Times sembrava un bollettino di guerra:

“Gli scioperi in Norvegia minacciano di far tagliare le forniture di gas al Regno Unito” (che ne importa per il 42% del suo fabbisogno). Per l’esattezza, veniva addirittura ipotizzato un calo fino al 60% del’export.

Londra in pericolo? Certo, una bella scoppola per Boris Johnson, che finora ha fatto il gradasso sulla pelle dei suoi vicini europei. Il novello Wellington era convinto di poter fare la voce grossa, in politica estera, “dato che non dipendeva energeticamente dalla Russia”. Visione molto parziale e troppo “british”. Perché una diminuzione dell’offerta si ripercuote, comunque, sulla determinazione globale dei prezzi.

Domanda-offerta e brigantaggio speculativo

E il gioco domanda-offerta, in Europa, viene alterato dal brigantaggio speculativo. Mario Draghi aveva (correttamente) proposto un “price cap” consortile per il gas. Ma Biden e soci (a cominciare da tedeschi e olandesi) hanno glissato. Al Presidente americano interessa il “tetto” sul greggio. La benzina, negli Stati Uniti, è arrivata a cinque dollari al gallone, e questo, se la musica non cambia, gli farà perdere le elezioni di Medio termine. Dunque, siamo messi maluccio. Innanzitutto, la Norvegia dà all’Europa un quarto del gas che utilizza e poi anche perché, dice il FT, aumentano i “rumors” sulle cattive intenzioni di Putin. Più di qualcuno pensa che, dopo la manutenzione, i rubinetti del Notd Stream 1 continueranno a restare chiusi. Mandando in crisi le strategie europee di stoccaggio per l’inverno.

Tritacarne finanziario

Tornando alla “sollevazione sindacale” norvegese, bisogna sottolineare che il meccanismo che sta mettendo in moto questa sorta di tritacarne finanziario si “autoalimenta”. Funziona così: i costi dell’energia (e di materie prime e semilavorati) salgono e impattano sulla catena produttiva, cosa che fa lievitare i prezzi finali di beni e servizi. I prezzi, in sostanza, aumentano (rapidamente) molto più degli stipendi e la qualità della vita crolla. È una situazione di “inflazione”, una tassa occulta che colpisce, in particolare, i più poveri.

Circuito perverso verso il peggio

E così, in Norvegia, i sottopagati dipendenti delle aziende estrattive o che producono energia, hanno incrociato le braccia. Vogliono più soldi. Intanto, non producono, mancano gas e petrolio, i costi finali aumentano e l’inflazione subisce un’altra spinta. In definitiva, si gira in tondo, con una mossa che ne provoca un’altra contraria. Che vuol dire? In sostanza, i possibili aumenti salariali potrebbero essere già stati “mangiati” da un’inflazione in costante rialzo. Dopo il colosso Equinor, secondo il Financial Times, potrebbero fermarsi completamente anche gli impianti di Gassco, un’altra importante società norvegese.

Addirittura, se le proteste (come pare) dovessero dilagare, potrebbe essere temporaneamente tagliato gran parte dell’export di gas verso il Regno Unito. E così il prossimo festino, a Downing Street, Boris Johnson lo dovrà fare a lume di candela, sempreché, nel frattempo, non lo abbiano pregato di togliere il disturbo.

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