Non sono stati i dieci giorni che cambieranno il mondo. Ma questa serie di vertici quasi ininterrotti – Unione Europea, G7, Nato – hanno fissato alcuni punti fondamentali e indicato un futuro per l’articolato fronte delle liberal-democrazie. Come sintetizza Ivo Daalder, ex ambasciatore Usa alla Nato, bisognava “istituzionalizzare la cooperazione emersa sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina”.
Perché non è così facile salvaguardare quella solidarietà e comunione d’intenti, impensabile sei mesi fa. Il G7 non è un’istituzione, un’organizzazione multilaterale come Nato, Ue o Fondo monetario. Era nato nel 1975 come momento di consultazione, di riflessione attorno a un caminetto, fra i principali paesi industrializzati uniti dagli stessi valori democratici. Ci sono stati dei cambiamenti: è entrato il Canada, la Russia è entrata ed uscita; alcuni paesi esterni hanno sviluppato economie più grandi di quelle di alcuni soci ma non valori democratici; l’appuntamento annuale è via via cresciuto d’importanza; il G7, è già saldamente un G8 con la presenza della Ue. Ma sostanzialmente resta una specie di associazione privata dell’aristocrazia democratica mondiale.
Il mondo cambia e dunque anche la fisionomia del club deve cambiare. Ue, G7/8 e Nato sono ormai indissolubilmente legati, fanno parte di un’architettura con preoccupazioni e ambizioni comuni. Se Unione Europea e Patto Atlantico si allargano, anche il G7/8 deve farlo. Con regolarità vengono invitati alcuni paesi asiatici e africani. Ma non basta: la piena adesione deve essere aperta ad altri paesi a democrazia consolidata. Se il XXI secolo prevede lo scontro/concorrenza/collaborazione con la Cina, il club deve essere come minimo aperto a Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. E se la Ue ha un posto fisso attorno al tavolo, deve averne uno anche la Nato.
Se è Vladimir Putin con le sue decisioni scellerate ad aver stimolato l’inaspettata solidarietà del mondo occidentale, il vertice Nato ha stabilito che non è della sola Ucraina che dobbiamo preoccuparci. La vera trattativa sull’ammissione di Svezia e Finlandia non è stata fra Turchia e i due paesi scandinavi, ma fra Turchia e Stati Uniti: sulle ambizioni di Ankara nel Nord della Siria, in Libia, a Cipro con il suo gas.
In un certo senso Recep Erdogan ha ricordato alla Nato che c’è sempre un fronte Sud cui badare: che, tra l’altro, per l‘Italia è di un’importanza strategica immediata, superiore all’Ucraina.
Un fronte che non è solo lungo il Mediterraneo ma penetra fino alle fragili repubbliche del Sahel, dove la lotta al terrorismo islamico è lontana da una vittoria. E forse non è casuale che anche in Siria, Libia e nel Sahel ci si debba confrontare con la presenza militare e politica russa. Come in Ucraina.
In Medio Oriente e in Africa c’è anche la Cina, il nostro nemico/competitor eventualmente socio del secolo. La sua presenza è economica ed è energetica nei paesi dove esistono gli idrocarburi, non politico-militare. Ma è questione di tempo. In questi giorni Ue, G7 e Nato hanno compiuto passi importanti per contrastare la penetrazione cinese oltre l’Indo-Pacifico.
Al vertice di Madrid dell’Alleanza Atlantica può essere sembrata una stonatura la stretta di mano fra Joe Biden e Recep Erdogan, sorridenti. A metà luglio ce ne sarà un’altra in Arabia Saudita, quando il presidente americano incontrerà il principe ereditario Mohammed bin Salman. E’ il giovane monarca che ha ordinato di uccidere e fare a pezzi il dissidente Jamal Khashoggi.
Erdogan ha comprato sistemi d’arma dai russi, ha ambizioni ottomane in una sfera geografica lontana da quella tradizionale della Nato, il suo regime ha forti tendenze autoritarie. Ma ha la seconda forza militare più vasta dell’Alleanza Atlantica; ha mantenuto un dialogo con Putin che gli altri membri si sono rifiutati di avere, dopo l’Ucraina. Il ruolo di Erdogan è importante quanto quello saudita lo è per calmierare il prezzo degli idrocarburi.
I vertici di questi dieci giorni hanno infine svelato un paradosso: grazie alla guerra in Ucraina siamo più compatti e determinati di prima. Ma è lo stesso conflitto che, se continuerà, avrà l’effetto di dividerci di nuovo. “E’ venuto il tempo per la Nato di muoversi verso un cessate il fuoco e un finale diplomatico”, sostiene Charles Kupchan dell’Università di Georgetown. E’ necessario per salvaguardare la solidarietà transatlantica. Più dell’aggressività imperiale di Putin, le grandi minacce da cui guardarsi, sono due. C’è l’instabilità politica all’interno dei paesi membri del fronte democratico:
a profonda spaccatura politica negli Stati Uniti; le debolezze dei governi europei, populismi e sovranismi che possono rompere l’unità transatlantica. E c’è la Cina: prima si chiude la guerra in Ucraina, prima concentreremo attenzione e risorse alla sfida del secolo, democratica ed economica, nell’Indo-Pacifico.