
Il Consiglio dei ministri ha approvato il commissariamento della Sogin, la società di stato che ha il compito di smantellare gli impianti nucleari e gestire i rifiuti radioattivi. Dopo vent’anni di ‘melina’ e rinvii per decidere dove realizzare il necessario ‘Deposito nazionale della scorie radioattive’, scegliendo di affrontare le scontate proteste della popolazione locale e pagarne lo scontato prezzo elettorale. Sino ad oggi e ancora per un bel po’ l’Italia ha preferito pagare profumatamente la Francia dove mandare le nostre scorie, e altri milioni di multa europea per la reiterata inadempienza da qui a un futuro sempre più lontano e incerto.
Il commissariamento è stato deciso, si legge nella premessa del decreto, «in considerazione della necessità e dell’urgenza di accelerare lo smantellamento degli impianti nucleari italiani». Il piano iniziale, approvato nel 2001, prevedeva la messa in sicurezza di tutti i rifiuti nucleari entro il 2014 e lo smantellamento completo delle centrali entro il 2019. Nel corso degli ultimi vent’anni gli amministratori che si sono avvicendati alla guida di Sogin hanno via via ridefinito i tempi e i costi, mentre la Sogin stessa, che doveva durare la breve stagione di un compito tecnico, ha continuato a sopravvivere rinviando. Nel 2010 la scadenza per completare il ‘decommissioning’ fu spostata al 2025, con una stima di 5,71 miliardi di euro per completare in tempo lo smantellamento. Nel 2017 la scadenza venne spostata ulteriormente al 2036 con un aumento dei costi a 7,25 miliardi di euro.
L’ultima proroga era stata decisa nel 2020 dall’attuale amministratore delegato, Emanuele Fontani, che ha previsto di raggiungere gli obiettivi sempre entro il 2036, ma con un aumento dei costi fino a 7,9 miliardi di euro. «Il governo, attraverso il commissariamento, spera di avere tempi e costi più certi e un avanzamento delle attività più veloce rispetto agli ultimi anni», scrive il Post. Remocontro che si è occupato a lungo della incredibile vicenda, non solo non ci crede, ma avanza forti sospetti sulla reali intenzioni politiche per ora nascoste attorno al nucleare italiano bocciato nel passato da due diversi referendum.
Secondo gli ultimi dati diffusi da Sogin, nel 2021 lo smantellamento delle scorie (il cosiddetto decommissioning) , «ha generato attività per 118,3 milioni di euro». Nostri soldi spesi, la traduzione. Gli amministratori hanno detto di aver raggiunto il miglior risultato di sempre nella gestione dei depositi attuali, senza però fare riferimento al processo per la scelta dell’area in cui costruire il nuovo deposito, che è ancora lungo e soprattutto in ritardo. La costruzione del nuovo deposito nazionale è essenziale per mettere in sicurezza le scorie e smantellare le vecchie centrali.
Nel futuro deposito nazionale, dovranno essere stoccati tutti i rifiuti nucleari italiani. 95mila metri cubi, di cui 17mila metri cubi “a media e alta attività” e 78mila metri cubi “a molto bassa e bassa attività”. Le scorie non arrivano solo dalle ex centrali nucleari, ma sono anche scarti di tante altre attività come la medicina nucleare, dove vengono utilizzate sostanze radioattive a scopo diagnostico, terapeutico e di ricerca. I rifiuti radioattivi vengono prodotti anche dall’industria. Di questi 78mila metri cubi, 33mila sono già stati prodotti, mentre 45mila metri cubi verranno prodotti in futuro, precisa sempre il Post.
Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2021 era stata pubblicata la mappa delle 67 aree potenzialmente idonee ad ospitare il nuovo deposito. Se ne parlava da quasi vent’anni e la mappa era pronta dal 2015, ma fino a un anno e mezzo fa era sempre rimasta coperta da segreto. CNAPI: Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico.
Non tutte le aree sono uguali: alcune sono più idonee, altre meno. Quelle più idonee sono 12 e si trovano in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso, Carmagnola), Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure) e Viterbo (due aree a Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Tutte le altre aree – in Toscana, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna – sono ritenute idonee, ma con una valutazione inferiore rispetto alle prime dodici.
Per trovare le aree idonee ad ospitare il nuovo deposito nazionale si è proceduto per esclusione. Per ora quella geologica, poi vedremo quella politica, molto più difficile. Sono stati incrociati i dati morfologici di tutta Italia per escludere i luoghi dove potrebbero esserci situazioni delicate come l’alta densità abitativa, il rischio sismico e idrogeologico, ma anche la presenza di siti Unesco o aree protette. Altri due criteri importanti sono l’altitudine, che deve essere sotto i 700 metri sul livello del mare, e l’esclusione di tutte le aree caratterizzate da versanti con pendenza superiore al 10%.
Lo scorso anno Sogin aveva promosso un seminario in cui chiunque aveva potuto presentare osservazioni e documenti in merito ai luoghi individuati nella mappa di quelli potenzialmente idonei. Una sorta di referendum ‘ombrello’. Dopo di che Sogin aveva preparato una versione aggiornata della mappa, chiamata CNAI, la carta nazionale delle aree idonee e quindi non più “potenzialmente idonee”. La mappa aggiornata è stata inviata al ministero della Transizione ecologica il 15 marzo, ma da allora resta segreta. Sarà diffusa soltanto dopo l’autorizzazione del ministero e dell’ISIN, l’ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare.
Le tempistiche ormai ventennali, sono state ridefinite dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani alla Camera. «Secondo il cronoprogramma attuale è stata valutata come percorribile l’ipotesi di entrata in esercizio del deposito nel 2029 con individuazione del sito nel mese di dicembre 2023», ha detto Cingolani. Post elezioni politiche, osserviamo noi. E molto dipenderà da come i territori reagiranno alla pubblicazione della nuova mappa.
Sogin spera che qualche comune si dichiari disponibile a ospitare il deposito nazionale. Finora gli incentivi promessi – tra cui un fondo di compensazione da 15 milioni di euro – non sono stati sufficienti a suscitare l’interesse degli enti locali. «Entro trenta giorni dall’approvazione della CNAI, la Sogin inviterà le Regioni e gli enti locali delle aree idonee alla localizzazione del parco tecnologico a comunicare, entro i sessanta giorni successivi, il loro interesse ad ospitare il Parco stesso …».
Tra i benefici del deposito nazionale, Sogin promette una ricaduta occupazionale di oltre 4.000 persone all’anno per i quattro anni di costruzione. Nella fase di esercizio, della durata di 40 anni, l’occupazione diretta è stimata in circa 700 addetti, fra interni ed esterni, con un indotto che può incrementare l’occupazione fino a circa mille persone. Insieme al deposito, inoltre, verrà realizzato anche un parco tecnologico con un centro di ricerca per studiare nuove tecniche di smantellamento delle centrali nucleari, gestione dei rifiuti radioattivi e salvaguardia ambientale.
Nel frattempo la gestione dei vecchi depositi sparsi nelle regioni italiane, finanziata con la bolletta elettrica, è decisamente costosa. Secondo un report della CGIL, dal 2001 ad oggi sono stato pagati in bolletta 3,7 miliardi di euro, ma solo 700 milioni sono stati utilizzati per lo smantellamento dei vecchi impianti: 1,8 miliardi di euro sono stati spesi per la manutenzione degli attuali depositi temporanei e 1,2 miliardi per il trattamento del combustibile radioattivo in Francia e nel Regno Unito. Ogni anno, quindi, lo stato spende 60 milioni di euro per stoccare parte dei rifiuti nucleari all’estero.
Una sottolineatura a nostro avviso sospetta. Una accorta proposta a far dimenticare le storiche inadempienze, cercando di far sembrare una costosissima e incerta pezza, un atto innovativo di virtù e coraggio. Secondo l’ultimo piano di Sogin, lo smantellamento delle centrali costerà 7,9 miliardi di euro e finirà nel 2036. Noi non ci crediamo. Con più di una qualche buona ragione.
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