
Proprio quando l’Australia ha cambiato governo con la vittoria del laburista di origine italiana Anthony Albanese, gli Stati Uniti si apprestano a contrastare la politica di espansione della Repubblica Popolare Cinese nel Sud Pacifico.
Oggetto della contesa sono gli Stati insulari che circondano l’Australia, arcipelaghi scarsamente popolati ma importanti tanto dal punto di vista geopolitico quanto da quello economico e commerciale. Sono conosciuti come paradisi turistici e teatro di molte battaglie terrestri e aeronavali tra americani e giapponesi nel corso del secondo conflitto mondiale.
Pechino cerca di promuovere accordi di alleanza e cooperazione con molti degli Stati suddetti, promettendo aiuti e investimenti. C’è, tuttavia, anche un risvolto militare. La Repubblica Popolare ha infatti siglato un accordo “di sicurezza” con le Isole Salomone, che hanno una posizione strategica a circa 2000 km dalle coste australiane. Ora sta perseguendo la stessa strategia con gli arcipelaghi di Kiribati e Vanuatu, anch’essi piccoli, ma strategicamente importanti nello scacchiere del Pacifico.
Il timore di Washington, Canberra e Londra e che Pechino intenda stabilire in queste isole delle basi militari e soprattutto navali, che sarebbero di grande aiuto per le sue mire espansive. Usa e Cina devono però affrontare le perplessità di questi Stati insulari, che temono di essere coinvolti in una nuova Guerra Fredda.
Questo spiega i frequenti viaggi nell’area di inviati di Washington e Pechino. Joe Biden ha inviato Joseph Yun, un esperto diplomatico di carriera, già rappresentante speciale Usa per la Corea del Nord. Yun si è recato nelle Isole Marshall, a Palau e in Micronesia per proporre accordi commerciali e di sicurezza. Sarà inoltre ricevuto sull’atollo di Kwajalein (Isole Marshall), uno dei tanti in cui gli Usa condussero esperimenti nucleari. Prometterà di risarcire gli abitanti per le conseguenze a lungo termine di tali esperimenti.
Il viaggio del diplomatico americano segue di poco quello del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che è andato a proporre a dieci Stati un trattato analogo a quello siglato con le Salomone, che in teoria consente alla Marina di Pechino di costruire basi navali in loco. Wang ha però ricevuto un rifiuto, ispirato soprattutto dalle Isole Fiji, l’arcipelago più importante dell’area.
Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha creato all’interno del Dipartimento di Stato una “China House” che ha il compito di coordinare la politica americana nei confronti della Repubblica Popolare. Alcuni analisti ipotizzano che Washington voglia riprodurre la strategia del “containment” elaborata nel secolo scorso da George Kennan durante la presidenza di Harry Truman, per contrastare le mire espansive della ex Unione Sovietica.
Si deve però notare che tra la Cina attuale e la ex Urss vi sono molte differenze. Quest’ultima era una grande potenza militare ma aveva pure un’economia stagnante che in seguito condusse al suo crollo. La Repubblica Popolare, invece, nonostante i suoi attuali problemi economici e il rallentamento del Pil, è soprattutto una potenza economica e commerciale che compete con l’Occidente in molti settori. Vi sono quindi molti dubbi che la politica del “containment” elaborata negli anni ’50 del secolo scorso possa funzionare contro la Cina dei nostri giorni.
E’ comunque interessante rilevare che gli Stati insulari del Sud Pacifico, essendo corteggiati da entrambe le potenze, hanno ora il coltello dalla parte del manico. La maggioranza sembra incline ad adottare una posizione di neutralità. Ciò che preoccupa i loro governanti e gli abitanti sono soprattutto i cambiamenti climatici, che rischiano di far sprofondare nell’Oceano Pacifico territori molto fragili. Più che di basi navali, è di questi argomenti che vogliono discutere con cinesi e americani.