
Ma l’ultima splendida inchiesta pubblicata dall’Economist, “China in Africa, should the West be worried?”, chiarisce che la realtà è molto più complessa e che i percorsi della geopolitica, a volte, rispondono a logiche sofisticate. Gady Epstein e John McDermott, autori del report, vivisezionano la presenza cinese in Africa fin dai tempi di Mao e ne analizzano modelli e finalità.
Una prima fase si può definire di tipo essenzialmente “politico”. Pechino si inserisce nel processo di decolonizzazione africano, e riesce a guadagnare il sostegno di molti Paesi per il suo ingresso all’Onu.
Il secondo periodo, a partire dal 1990, segna la decisa espansione delle relazioni internazionali africane della Cina sul terreno economico. Comincia, lentamente e poi in maniera sempre più incalzante, l’import di materie prime (energia, terre rare) in cambio di un export che non si limita soltanto a prodotti finiti, ma che riguarda, in particolare, attrezzature militari e infrastrutture “chiavi in mano”. E, assieme alle infrastrutture, anche tecnici di livello e operai qualificati.
La terza fase scatta con l’arrivo di Xi Jinping e matura, grosso modo, dal 2014 in poi. L’economia resta sempre il perno della penetrazione cinese, ma molto meno di prima. Mentre torna in ballo una forte spinta politica, una sorta di richiamo ad abbracciare un modello politico e sociale che non si identifica esattamente con quello occidentale.
Comunque la si voglia leggere, quella cinese è senza dubbio una strategia d’attacco, di fronte alla quale, scrive l’Economist, le risposte dell’America e dell’Europa sono state balbettanti. Basti solo ricordare che l’ultimo Presidente Usa ad avere visitato l’Africa è stato Barack Obama. Da allora, quel Continente e come se fosse stato praticamente rimosso dalle successive Amministrazioni Usa.
Né sembra, a parere degli autori, che il piano “Build Back Better World” di Joe Biden, possa avere grande successo. Gli autori lo definiscono “poco più di una nuova etichetta per la cooperazione tra le agenzie di Washington”. Stesso giudizio, molto critico, anche per le contromisure dell’Unione Europea (il “Global Gateway”) studiato “per creare collegamenti e non dipendenza”, secondo Ursula Von der Leyen. E che, invece, risulta un progetto molto superficiale.
Ma il problema, come scrive l’Economist, non è solo economico, perché con Xi sono tornate prepotentemente in campo anche le ambizioni politiche della Cina. Ambizioni temute in modo bipartisan dagli americani. Già Hillary Clinton aveva parlato di “nuovo colonialismo cinese” e Mike Pompeo (ex Segretario di Stato di Donald Trump) aveva ribadito che Pechino “fa solo vuote promesse”. Tuttavia, Epstein e McDermott mettono in guardia dalle esagerazioni, con le quali, quando conviene, l’establishment occidentale dipinge la penetrazione dei cinesi in Africa.
“Il più grande fallimento della visione occidentale della Cina in Africa – scrivono – è di tipo concettuale. A volte si riduce il ruolo della Cina a quello di una gigantesca impresa di costruzioni. E quando non semplifica, l’Occidente esagera, attribuendo a Pechino più calcoli di quanto meriti, come nelle accuse ampie e fuorvianti di perseguire deliberatamente la “diplomazia della trappola del topo”. Cioè di fare dei prestiti generosi, sperando che non te li restituiscano, in modo da comprarti, in seguito, a prezzi da saldo, il debitore con tutto il suo Paese. Questo, secondo gli autori, non è vero. Nessuno ci sta a perdere soldi e l’alea del rischio fa parte del gioco.
Che è un gioco grosso e non solo “bottegaio”, come pensano alla Casa Bianca e a Bruxelles. “La Cina vuole cooptare il Sud del mondo ed è formidabile nella produzione di hardware”. Un’altra cosa, però, è la necessità di far funzionare bene quello che fai. Il “software”.
E non parliamo solo di macchine, ma anche di società e di sistemi politici. L’Africa ha fame. Di cibo e di libertà. L’ideale sarebbe se potesse avere tutte e due le cose.