
Se prendi di mira qualcun altro, ostinatamente, o hai una nevrosi ossessiva, oppure sai che sono in gioco i tuoi interessi. Certo, nella società umana, i valori ideali hanno un peso determinante. O lo dovrebbero avere. Diritti fondamentali della persona, democrazia, rispetto delle minoranze, tutela dei più deboli e degli emarginati, garanzia di accesso per tutti alle risorse primarie, sono obiettivi imprescindibili. Questo sulla carta.
Perché, poi, esiste una cosa, che si chiama “realpolitik”, e che rimette tutto in discussione, concedendo ampia facoltà di derogare dai “sacri” principi di cui sopra. Che restano, però, un eccellente “falso scopo”, per mascherare altri obiettivi più prosaici. Ecco, la guerra non dichiarata dagli Stati Uniti alla Cina, parte esattamente da queste premesse. Strategicamente, la competizione riguarda la supremazia dei due sistemi economici.
Tatticamente, invece, nella dura battaglia che si è sviluppata in questi ultimi trent’anni, entrano diversi altri elementi: la mancanza di democrazia di Pechino, la crescita cinese come potenza non solo indo-pacifica, la riluttanza degli Stati Uniti a rinunciare a un mondo “unipolare”, il loro cronico deficit nella bilancia commerciale, il “caso Taiwan”, il ruolo trainante della Cina nei confronti della Russia e, soprattutto, verso un blocco esteso (e autorevole) di Paesi, che potremmo definire “non allineati”, ma che di sicuro non amano Washington. Insomma, la Cina resta, per molti motivi, una spina nel fianco degli Usa.
Per questo, Biden, quasi subito dopo il suo insediamento, gliel’ha giurata: “Pechino non riuscirà mai a sorpassare l’America e a diventare la prima potenza economica del mondo”.
Chiarita la materia del contendere, passiamo alla “partita”. Quella vera, quella per i dollari. I cinesi hanno già dimostrato di guardare lungo e con grande anticipo. Non pensano a quello di cui c’è bisogno ora. No, ipotizzano ciò che sarà necessario utilizzare nel medio-lungo periodo. Abbiamo già scritto di microchip e litio, ma oggi parliamo di pannelli solari. Hanno quasi il monopolio mondiale della loro produzione, dato che 8, delle prime 10 grandi aziende, sono cinesi. Una “rinnovabile” che Pechino controlla, arrivando persino a ricattare (indirettamente) gli americani.
Come? È una storia “vecchia”, per modo di dire. In effetti sembra che sia stata scritta stamattina. Si chiama “dumping”, cioè vendita sotto costo. I cinesi, a partire dal 2011 e grazie agli aiuti a fondo perduto del loro governo, hanno venduto, negli Usa, pannelli solari “a quattro e due soldi”. Cioè, a niente. Dopo un po’ di agonia, le fabbriche americane hanno dovuto chiudere. E loro sono rimasti gli unici fornitori (o quasi) sulla piazza e, naturalmente, hanno alzato i prezzi di colpo. Pur rimanendo competitivi.
Scoperto il giochetto, grazie al Dipartimento per il Commercio, l’allora Presidente Obama ha imposto delle tariffe sull’import di Pechino, che hanno fatto lievitare il prezzo del 250%. E provocato il calo delle importazioni, da 2,8 miliardi di dollari, fino a 400 milioni. Ma gli americani non sapevano a che santo votarsi, perché i pochi pannelli solari reperibili negli Stati Uniti costavano un botto. Così, fatta la legge trovato l’inganno. Pannelli e pezzi di ricambio (rigorosamente Made in China) hanno continuato a raggiungere gli Usa, con i timbri (sovrapposti) di altri quattro Paesi non sanzionati: Vietnam, Cambogia, Thailandia e Malesia. E da questa regione l’import è aumentato di un astronomico 865%.
Naturalmente, tutti sapevano e nessuno parlava, perché senza pannelli “dell’autocratica Cina” (forse ritenuta un po’ meno illiberale, nella circostanza) la promessa energia pulita sarebbe andata a farsi benedire. Ma poi è sorto un altro problema. Le proteste contro il Dipartimento per il Commercio, di fronte a questa nuova situazione, si sono fatte sentire. Anche se l’Amministrazione Biden le ha lasciate chiuse in cassetto, per un anno. Ora, però, un piccolo produttore ha portato il caso clamorosamente allo scoperto e c’è un indagine governativa in corso. Se Biden dovesse bloccare l’import di pannelli dal Sud-est asiatico, introducendo nuove tariffe, avvertono gli specialisti, il settore americano delle “rinnovabili”, di cui il fotovoltaico è un perno essenziale, andrebbe in crisi.
Con gravissime ricadute sull’economia, sul mercato del lavoro, e sulla possibilità di realizzare quel “programma verde”, tanto propagandato da Biden in campagna elettorale. D’altro canto, il Presidente accusa la Cina di schiavizzare gli abitanti dello “Xinjang”, sottoponendoli a turni di lavoro massacranti, per la fusione del polisilicio, materiale indispensabile per realizzare il vetro dei pannelli.
Biden, per rispetto ai suoi profondi sentimenti democratici, non importerà più un solo pannello solare dalla Cina, anche a costo di far aumentare l’inflazione, mettere in crisi l’economia americana e perdere le elezioni di Medio termine? Rispondetevi da soli.