
Secondo dati e analisi ISPI (Studi di politica internazionale) su sanzioni e auto-sanzioni europee stanno facendo più male a Mosca che ai paesi europei. Per ora e forse ancora per poco. «Auto-sanzioni» perché, pur in assenza di sanzioni formali, dopo l’invasione russa dell’Ucraina molti importatori europei hanno cominciato a ridurre i loro acquisti di petrolio russo. Domanda europea per circa il 45% delle esportazioni russe non compensata integralmente da altri acquirenti, con la Russia costretta a ridurre la produzione interna e sconti di circa 35 dollari al barile rispetto al Brent.
Riduzione delle entrate per Mosca che, «se protratte nel tempo, equivarranno a circa 570 dollari l’anno per ciascun cittadino russo. Viceversa, il maggior prezzo del petrolio Brent per i cittadini europei si traduce al momento in un costo di circa 150 dollari l’anno pro capite. In sostanza, i russi stanno ricevendo un colpo quattro volte superiore rispetto agli europei». Ma non è scontato che, imponendo un embargo, l’UE riuscirebbe a minimizzare ulteriormente i ricavi russi, anzi.
Più domanda di petrolio non russo, prezzi che salgono, anche per quello russo rifiutato dall’occidente. «In questo scenario pessimistico, non solo il danno collaterale per gli europei sarebbe elevato (oltre 600 dollari pro capite annui), ma Mosca anziché perderci ci guadagnerebbe senza nemmeno dover aumentare la produzione».
Gas escluso dalle sanzioni attuali, ma dagli Usa la spinta all’emancipazione europea dal gas russo è martellante. Già ora il prezzo del gas russo è di circa cinque-sei volte più alto rispetto a periodi “normali”. E questo alza il prezzo dell’elettricità. «Risultato: bollette che in Italia, per esempio, sono più che raddoppiate, contribuendo a raffreddare gli animi di governi e opinioni pubbliche su ulteriori sanzioni sull’energia russa».
Prima Grecia, Malta e Cipro che hanno ottenuto di far eliminare il divieto alle navi UE di trasportare petrolio russo. Bene per i loro trasporti marittimo e per il petrolio di Mosca verso paesi terzi. Poi l’oleodotto Druzhba, che trasporta petrolio russo verso l’Europa centrale. Repubblica Ceca e Slovacchia, senza sbocchi al mare, non possono farne a meno. In più la minaccia di veto dell’Ungheria, con un ricatto economico e politico palese.
Un’esenzione di cinque anni dall’embargo e circa 1 miliardo di euro per ammodernare la propria raffineria e rafforzare l’oleodotto che la collega all’Adriatico, «salvo alzare le proprie richieste addirittura a 15-18 miliardi».
Obiezione molto “politica”: per le simpatie tra Orban e Putin, e in casa Ue che sta continuando a bloccare i 7 miliardi di euro all’Ungheria previsti nel Next Generation EU, a causa dei problemi ungheresi nel rispetto dello stato di diritto.
Ma i timori economici europei non sono solo energetici, ma riguardano il complessivo stato di salute delle economie europee. E i dati sono ormai chiari. 2022, ripresa economica in Eurozona da un +4,3% previsto nell’autunno scorso a un +2,7% previsto oggi. Peggio: «la Commissione europea ha stimato che uno “scenario avverso” potrebbe precipitare l’Eurozona verso una vera e propria “crescita zero” quest’anno (+0,2%)». Crescono solo inflazione e spese. Inflazione aprile al 7,4%, con un aumento generale della spesa pubblica (stimoli fiscali, spese militari e umanitarie).
L’analisi ISPI prova a rovesciare la logica sanzioni, per meglio capire. «Cosa succederebbe se oggi Mosca interrompesse le forniture di gas all’Europa? Improbabile, ma ipotesi da considerare. Nulla di buono all’orizzonte, anche rovesciando i ruoli.
«Cattive notizie per i governi europei, che non possono dunque contare su prospettive di riduzione dei prezzi per ‘vendere’ le sanzioni alle proprie opinioni pubbliche.
E cattive notizie anche per il resto del mondo, perché se davvero i prezzi del GNL dovessero restare alti a lungo alcune economie asiatiche potrebbero essere spinte a rinunciare a parte delle forniture, tornando a produrre elettricità con il carbone. Cosa che, purtroppo, sta già avvenendo».