L’ipocrisia è il tessuto della nostra epoca.
Camminiamo a occhi bendati sulle strade del nostro abitare, guidati da un’idea falsata di modernità, di sviluppo, di utilità delle scelte. Senza più chiederci il perché, senza che si accendano domande legate al nostro senso critico, se non quando queste domande non siano precedute da risposte o siano utili a creare inutile risentimento, battaglia epocale tra scelte che non danno soluzioni.
Le nostre azioni oscillano tra senso e non senso, tra cavolate fracassone, sparate razziste vergognose, fascisterie senza vergogna, mancanza di dignità umana e politica e, di contro, un mondo solido e istituzionale, fatto di certezze assolute e finanziarie, di richieste dall’Europa, dalla Nato, e competenza in giacca e cravatta portate con una certa raffinatezza.
In mezzo, tra questi estremi, il deserto. Uno spazio svuotato da decenni, in cui non cresce più niente, né senso critico né umanità, dove le nostre domande si seccano nell’attesa e le ingiustizie rimangono senza voce, spariscono da ogni discussione pubblica. E parlo del welfare, dei salari, di una economia più giusta e sostenibile, dei diritti, dell’istruzione, della pace, della difesa della costituzione, della sanità pubblica, della vita reale dei cittadini nelle città, nei paesini dimenticati.
Il nostro pessimismo origina dalla sconfitta e non dalla resa. Mentre l’ottimismo che permea le decisioni, sempre più obbedienti e oscure, origina dalla resa culturale e dalla vittoria di chi ha potere contro tutti gli altri che ne hanno zero
Oggi semplifichiamo. Non uso il rasoio che sarei pericoloso. Abbiamo fiori da raccogliere, sono rossi immersi nel verde, sono fiori di sulla, crescono accanto ai papaveri rossi. Colorano l’orizzonte