«I messaggi di sangue che inventiamo si ritorcono sull’inventore…che sprone ha il mio disegno? L’ambizione, non altro: l’ambizione che da sola, saltando troppo in alto sulla sella, si disarciona». Nel celebre monologo, Shakespeare dà la chiave della catena di delitti concepiti da Macbeth. L’interpretazione di un destino profetico e l’ambizione sfrenata spingono il re ad uccidere rivali ed amici, a ordire congiure di palazzo, ad andare in battaglia, ad aggredire innocenti. Con un risultato catastrofico e opposto al disegno: il crollo del regno, la morte, la fine di tutto.
Non possiamo prevedere se i piani di Putin si concluderanno in tragedia shakespeariana, se ci saranno al Cremlino complici delusi e uomini di buona volontà decisi a liberarsi del capo. Ma un primo atto del «Macbeth russo» si è consumato: la realizzazione degli opposti, tragica conseguenza di disegni sbagliati, oltre che criminosi. Al punto che – anziché indagare su presunte tare psicologiche, fare paragoni con Hitler e domande sullo stato di salute – sarebbe il caso di avanzare ipotesi paradossali: Putin, l’agente segreto della Nato e della CIA, l’amico di Washington sotto copertura, il traditore del suo stesso popolo. Paradossi, naturalmente.
Certo è che se si fa l’elenco delle vicende accadute dopo l’invasione dell’Ucraina, le decisioni dello Zar appaiono in tutta la loro grottesca, tragica e beffarda luce: sanzioni internazionali, pesanti perdite militari, sconfitte sul campo, rafforzamento dell’unità europea, rilancio e allargamento della Nato, «riabilitazione» della leadership americana dopo le figuracce a Kabul, avvicinamento alla Cina in posizione di debolezza, rafforzamento del dissenso interno, emigrazione di cervelli e capitali, condanna morale, isolamento culturale del Paese e solidarietà armata all’Ucraina e all’ex comico che comanda a Kiev. Se Shakespeare resuscitasse, non chiederebbe di meglio.