La fabbrica dell’incoscienza

Se il mondo è buio, si perderà la bellezza e governerà la paura. Questo il titolo di un testo apparso su Remocontro quasi cinque anni fa. Prima della pandemia, prima della guerra nel cuore dell’Europa, prima della deriva bellicista che furoreggia nelle nostre istituzioni e dilaga nell’armamentario mediaticamente nelle arene dell’informazione spettacolare.

Anche se, a dire il vero, la tendenza era già abbastanza delineata. Per questo, nel Polemos di questa domenica, ripropongo le parole di quella analisi. Per riflettere su tutto quello che stiamo perdendo, sulla tragedia della nostra epoca così assuefatta alla ferocia talmente levigata da sembrare necessaria. Ecco frammenti di quel testo.

Il fallimento per tutti noi risiede nelle semplificazioni delle risposte già date, che annullano il fuoco della domanda, laddove si erigono i monumenti alla bruttezza del tempo, al razzismo, alla xenofobia, all’accettazione passiva delle ingiustizie e delle guerre, ma anche alle piccole azioni di stupidità e ferocia che appartengono a questa epoca. Il fallimento etico di tutti noi ha come contrappeso la vittoria schiacciante di un sistema che oggi si impone come immutabile. Talmente indiscutibile da sembrare emanazione divina. Che prevede il sacrificio di massa degli ideali di intere generazioni, spente nell’attesa di essere inseriti in un gioco di ruolo che mortifica e tiene in vita, nella trasformazione di vite in vite precarie, ricattabili, fragili.

Con una chiarezza incredibile ha detto Simone Weil, grande filosofa e mente sovversiva del Novecento, che gli oppressi di ogni tempo e luogo, umiliati e offesi, non sono in grado di interpretare il tempo e di agire per il cambiamento epocale: “Questo sentimento abita dentro di loro, ma giace così inarticolato che essi stessi non sono in grado di discernerlo”. Scrive Nicola Lagioia spiegando questo concetto: “L’esempio portato dalla Weil è quello del ladruncolo semianalfabeta che balbetta intimidito davanti al giudice, il quale, seduto comodo sopra il suo scranno, è pronto a colpirlo col maglio di una legge consustanziale al mondo che l’ha portato a errare. Se le vittime della violenza – anche di quella istituzionalizzata – non hanno voce, a propria volta, quasi immancabilmente, ‘i professionisti della parola sono del tutto incapaci di dargli espressione’ dal momento che i loro privilegi (i gerani della sovrastruttura) si fondano sullo stesso potere che è l’origine della violenza. Quando il ceto intellettuale sta difendendo pubblicamente gli ultimi, non sta forse, nove volte su dieci, lottando per ribadire la propria forza?

Utile ricordare che Simone Weil scriveva tra le due guerre del Novecento (è morta nel 1943). Riflettendo sulla dipendenza dell’individuo dal lavoro sempre più specializzato che tende a diventare soggezione al potere. Da quegli anni a oggi, l’analisi di Weil è diventata una realtà talmente evidente e immutabile da essere considerata accettabile e indiscutibile. Niente più è a misura d’uomo, niente più agisce nell’etica del discorso pubblico, in cui l’uomo di parola ha un valore. La società è una collettività cieca, obbediente nel mantenere e aumentare i propri squilibri a proprio discapito, “una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l’incoscienza”.

Ecco, a questo punto siamo. Nella fabbrica dell’incoscienza.

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