Dalla parte di chi cura, per non doverci vergognare

Chiede Paolo Rumiz, in uno scritto apparso su la Repubblica (che pubblico interamente in coda alle mie riflessioni), se non ci vergogniamo della nostra ipocrisia. Il suo testo è bello e profondo, non prende parte, non dispensa certezze assolute, non indossa alcun elmetto, non festeggia il clangore bellico che tanto piace ai media, ma celebra la vita.

Celebra la vita che è l’unica cosa che possediamo; la vita con le sue sfumature, la sua bellezza, il suo dolore. L’insieme dei valori etici che tengono insieme la coscienza, la memoria, la paura, l’equità, la misura, il rispetto per noi stessi; il desiderio di dare un futuro ai nostri figli, di non dimenticare quello che hanno fatto i nostri padri per farci arrivare a questo punto esatto della storia.

Celebra la vita con i suoi dolori, con le incertezze che la innervano, con quel senso di rispetto che dobbiamo alle parole che pronunciamo, alle azioni che facciamo, alle scelte che compiamo; quando prendiamo le parti degli indifesi, quando arrossiamo di fronte alla povertà cruda, quando teniamo conto del fatto che viviamo in un sistema sociale in cui l’ingiustizia, corroborata da arroganza e oligarchia del sistema democratico, regna senza opposizioni culturali e questo ci fa soffrire e non poco.

Ci pone i dubbi. E i dubbi sono sacri per comprendere le nostre ragioni e anche quelle dell’altro. Tra i dubbi: quali sono i valori che animano il nostro essere uomini e donne in una società civile? Chi li determina? Quali i condizionamenti che ci spingono come gregge a posizionarci da una parte o dall’altra in un’arena mediatica e politica. Di fronte a una scelta binaria su questioni che non ci appartengono, che rappresentano declinazioni di valori che non consideriamo tali. Come restare umani in un mondo in cui il disumano, corredato dall’ipocrisia, determina meccanismi pazzeschi che ci stanno conducendo al massacro?

Grazie a Rumiz per questo contributo, per continuare a riflettere e a farci riflettere. Per aver parlato della vergogna che discende dal comprendere quanta follia ci sia dentro i messaggi del marketing bellico. Forse senza l’elmetto stretto in testa e senza la catena di comando militare che intasa l’informazione potrebbe esserci un modo per riproporre in primo piano la vita. Per pensare che anche in guerra si può scegliere di stare dalla parte di chi cura. Senza ipocrisia. Senza decidere in base a colore della pelle, provenienza geografica, interessi militari, geopolitici, dei mercati o di altre sciocchezze che come esseri umani non esistono. Dalla parte di chi soffre, di chi muore, degli sfruttati di tutto il mondo. Senza se e senza ma. Con cura, senza ipocrisia. Per vivere, per restare umani.

Ecco il testo di Rumiz.

“Per una sera, smetto di ascoltare l’onnipresente Zelensky e mi concentro sulle tv russe e statunitensi. E lì arriva la sorpresa. Lo spettacolo di una dittatura e di una democrazia egualmente chiuse in una bolla fuori dalla realtà…. Pur nelle abissali differenze, sorprendono le somiglianze. Entrambi gli antagonisti guardano alla guerra come a un videogioco e alla terza guerra mondiale come a una cosa lontana. Né l’uno né l’altro sembrano ricordare che fra le due potenze esiste una cosa chiamata Europa, intesa al massimo come una protuberanza dell’America. Forse non se ne sono mai accorti: e li capisco. Come accorgersi di una terra che non ha una sua politica estera né un suo esercito, e resta inchiodata al palo, in bilico tra le strategie di Washington e i rifornimenti di gas dal Cremlino?

Ho avvertito il rischio che l’Europa sparisse davvero, in preda a un ebete sonnambulismo come nel 1914, quando si gettò nel baratro. Una percezione fisica. Come se dovessi prendere improvvisamente atto della fine di un’idea. L’America ha due oceani per tutelare la sua sicurezza. Noi no. Abbiamo a disposizione solo un’intercapedine di spazi neutrali, e proprio di quegli spazi ci priviamo, con la Nato che ora va a “proteggere” anche Svezia e Finlandia…

Esisti ancora, Europa? Non ti trovo più. Ti leggo come un corpo inerte, spezzato e subalterno. Un’alleanza incapace di pensare in grande, ossessionata dalla sicurezza, crocefissa da reticolati, dimentica delle guerre che hanno lacerato la tua carne. Quasi nessuno scatta in piedi al suono del tuo inno. Generi sbadigli. Sei una rovina nel vento, come un anfiteatro romano o una sinagoga vuota. Comunque vada a finire, l’Unione stellata uscirà a pezzi, stretta da una durissima recessione, ridotta a pura essenza strategica, con gli ultimi entrati nella Ue – gli ex comunisti del Patto di Varsavia – autorizzati a imporci una linea bellicista, non “per” l’Ucraina, ma “contro” la Russia. La fine di un mondo, quello in cui abbiamo creduto…

Ma il vero pericolo non arriva dall’esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L’Ue spende già ora il quadruplo della Russia in armamenti, ma è un nano strategico. Non ha un suo esercito e una sua politica estera. Avere un’armata con bandiera blu stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna l’aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d’uscita. Invece di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha scelto di smobilitare dall’Afghanistan senza nemmeno la cortesia di preavvertirci.

Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo favorito la secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base militare nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del potenziale epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a pretendere il Donbass? E ancora: siamo sicuri di mandare armi all’Ucraina per amore della sua indipendenza, se fino a ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio universale si gioca l’accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri rifugiati sono violentemente respinti o lasciati marcire nei gulag greci e turchi?

Mentre scrivo, la “Ocean Viking” con 295 naufraghi a bordo, aspetta da undici giorni l’autorizzazione allo sbarco, in piena emergenza sanitaria, col ponte intasato di corpi e di vomito. Intanto, sul mio confine, i profughi ucraini passano liberamente, senza obbligo della quarantena da Covid, che invece è richiesta agli africani anche se negativi al test. Non ci vergogniamo di una così lampante disparità di trattamento? E non ci viene da immaginare quali tensioni sociali potrà innescare la presenza dei migranti ucraini che noi facciamo sentire di Serie A e che domani potrebbero anche passare di moda?”

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