Assedi e stragi. Sarajevo, la storia e la memoria corta

Markale, mercato rionale nel centro di Sarajevo, subito dietro la cattedrale cattolica lungo viale Maresciallo Tito, 5 febbraio 1994, ore 12.10. Una sola bomba da mortaio piombata dall’alto tra i palazzi provoca sessantotto morti e quasi duecento feriti tra la folla che cercava di comprare quel poco di cibo e di cose necessarie che si potevano trovare. Una granata sparata da dove e da chi? Perizie internazionali durate venti anni, spesso a contraddirsi e senza mai proporci una verità definita.

Come cominciò il 1994 a Sarajevo

L’inverno, come del resto è normale in Bosnia, fu abbondante di neve; soprattutto nelle speranze della popolazione civile, il fattore atmosferico avrebbe dovuto rallentare le attività degli assedianti, ma non fu così, perché in realtà la stagnazione dei combattimenti servì ad accumulare altre scorte di munizioni. Il 22 gennaio vi fu l’avvicendamento al comando delle forze di UNPROFOR (il contingente delle Nazioni Unite) e al generale belga che passava le consegne ‘sfuggì’ un frase simile a quelle che in passato lo avevano reso impopolare al Palazzo di vetro: «Qui a Sarajevo – disse – abbiamo un dispositivo di mantenimento della pace, ma non un accordo per metterla in atto».
Nelle stesse ore bombe da mortaio cadute sul quartiere di Alipašino Polije provocarono la morte di sei bambini che giocavano con gli slittini sulla neve. Gli esperti di UNPROFOR accorsi sul luogo affermarono che le bombe erano arrivate da ovest, ma che non si trattava di un elemento sufficiente a stabilire chi le avesse sparate, in quanto in quel punto, i settori di tiro di attaccanti e difensori ‘si incrociavano’. Le buche provocate dalle esplosioni risultavano inoltre troppo basse (per colpa della neve, spiegarono gli esperti) per stabilire le traiettorie esatte.
Il generale inglese Rose, che ottenne subito il sostegno del rappresentante dell’ONU in città Yasushi Akashi, dichiarò che Sarajevo non era da ritenersi sotto assedio. Il peggio tuttavia doveva ancora arrivare.

Markale, 5 febbraio 1994, ore 12.10

Lungo la centrale arteria cittadina dedicata all’epoca al maresciallo Tito, si apriva a lato uno slargo ampio all’incirca una trentina di metri per una cinquantina, circondato su due lati dai palazzi vicini, alti sette od otto piani. Si trattava di un piccolo mercato rionale, ma soprattutto di uno spazio semi chiuso, nel quale le bombe sarebbero potute cadere solo dall’alto, verticalmente o quasi. Difficile stabilire se il luogo desse per questo una sensazione di sicurezza, almeno rispetto altri spazi senza ripari, ma sabato 5 febbraio 1994, circa dieci minuti dopo mezzogiorno, cadde invece una sola bomba da mortaio da 120 mm che provocò sessantotto morti e quasi duecento feriti tra la folla.
Questa volta, dato che l’impatto dell’ordigno era avvenuto su un terreno urbano, asfaltato e lastricato – ben diverso quindi dalla terra mista a neve di Alipašino Polije –, i rilievi degli esperti avrebbero potuto determinare con esattezza una traiettoria e quindi sull’origine dell’ordigno, le cui schegge avevano disegnato con chiarezza il cosiddetto ‘ventaglio’, ossia la traccia dell’impatto con il terreno.
Cinque minuti dopo i primi a giungere sul posto furono un ufficiale e un sottufficiale francesi che tracciarono i primi rilievi recuperando la coda della bomba; ad essi seguirono altri due francesi alle 14.00 ed infine un quinto francese isolato alle 15.00, seguito alle 16.00 da un maggiore canadese che trasse le conclusioni finali poi consegnate alle Nazioni Unite. Quattro rilievi condotti da esperti avrebbero dovuto fornire dati certi, ma così non avvenne.

Scienze esatte

Le operazioni condotte dagli esperti avevano prodotto ogni volta risultati differenti: la prima stima (definita nei comunicati ufficiali ‘molto approssimativa’, ma che in realtà – con il senno di poi – risultò essere la più vicina alla realtà) fu corretta da una seconda e da una terza che, a loro volta, furono cancellate dal rapporto finale dell’ONU che stabilì il punto esatto di partenza della bomba: la traiettoria non riconduceva alle posizioni degli assedianti, ma nemmeno a quelle degli assediati.
Fu istituita una commissione d’inchiesta composta da francesi, uno spagnolo, un russo, un norvegese e un pakistano che alla conclusione sentenziò che il primo rapporto era ‘viziato’ da un grave errore matematico: l’ordigno era partito «da qualunque punto collocabile due volte un chilometro e mezzo nord-nordest dalla piazza, dove passa la linea di separazione». Un mortaio sconosciuto insomma, a metà della ‘terra di nessuno’. La questione fu chiusa e per molto tempo coperta dal mistero, sebbene rimanessero forti sospetti su una parte dei belligeranti. Parte della verità si conobbe molto più tardi, nel corso delle udienze del Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia.
Durante il processo al comandante degli assedianti, svoltosi tra il 2001 e il 2003 e che si concluse con la condanna a vent’anni per crimini di guerra, emerse la verità sull’episodio. Come previsto dallo statuto della corte l’imputato ricorse in appello, ma – caso raro nella giurisprudenza internazionale – fu però condannato all’ergastolo.

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