La sofferta realpolitik di Israele sull’Ucraina e i calcoli sbagliati Usa sugli alleati arabi

«A Bucha abbiamo visto la nostra umanità in frantumi». Ursula von der Leyen, il viaggio notturno in treno della presidente della Commissione europea dalla Polonia a Kiev, la visita a Bucha tra i sacchi pieni di cadaveri.
Dall’Europa un miliardo di euro in aiuti economici, mezzo miliardo per gli armamenti, «per combattere, resistere e vincere».
E il resto del mondo? Il copertina un murale di solidarietà con l’Ucraina a Binnish, nella provincia siriana di Idlib.

Battaglie ideali e realpolitik

Crisi ucraina, battaglie ideali e realpolitik. È questo il percorso che fanno, girando in tondo da un paio di mesi, le Cancellerie di mezzo pianeta. Naturalmente, ognuno reagisce e si comporta in base a storia, cultura, tradizioni e alleanze che si porta appresso. Per questo è ingeneroso fare classifiche di sensibilità. “Est modus in rebus” dicevano i latini, c’è modo e modo di fare le cose. Ergo: ogni governo stabilisce una scala delle priorità e, la maggior parte, mette sopra ogni cosa il benessere e la sicurezza dei propri cittadini. Perché a loro, prima di tutto, deve rendere conto. Specie in un sistema democratico.

Da Israele in guerra permanente

Bene, questa riflessione serviva a introdurre una breve analisi, sui motivi che hanno portato Israele, pur essendo grande alleato degli Stati Uniti, a scegliere una posizione di equidistanza sulla guerra. Un orientamento deciso, conosciuto già da tempo, cioè sin da quando Gerusalemme si è rifiutata di vendere, all’esercito di Kiev, il sistema missilistico antiaereo “Iron Dome”. Ora è Haaretz, forse il più prestigioso quotidiano israeliano, a ritornare sull’argomento, animando il dibattito con un serie di articoli . Si tratta di prese di posizione che rispecchiano anche il clima politico infuocato di queste settimane, col governo Bennett-Lapid sul filo della crisi. Il giornale aveva già pubblicato le dichiarazioni fatte da ex ufficiali di altissimo rango, che spiegavano i motivi della neutralità sulla crisi ucraina.

Realpolitik in Medio Oriente

In sostanza, pura “realpolitik”. Con le truppe russe in Siria, a controllare l’esuberanza delle milizie sciite che hanno come punto di riferimento Teheran, le forze armate dello Stato ebraico hanno scelto di non inimicarsi Putin. Troppo importante la sicurezza del Golan e, soprattutto, cruciale l’obiettivo di tenere a freno i possibili attacchi di Hezbollah contro l’Alta Galilea. Più in generale, la sorta di gentlemen’s agreement raggiunto con Mosca costituisce una forma di equilibrio, che contribuisce alla de-escalation nella regione. Paradossalmente, per Israele, la “sponda” russa diventa ancora più significativa nel momento in cui Washington, sembra riavvicinarsi, con un cambiamento di strategia, all’Iran. Come si vede, parliamo di un’architettura geopolitica abbastanza complessa, che lega crisi ucraina, Medio Oriente e Golfo Persico.

La critiche americane

La scelta israeliana, di non schierarsi apertamente contro la Russia, è stata criticata da molti commentatori occidentali, specie negli Stati Uniti. “Haaretz” ha pubblicato, a questo proposito, un’intervista con il generale H.R. McMaster, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale del Presidente Trump. McMaster non ha dubbi: “Israele sbaglia. La preoccupazione di coprirsi le spalle con Putin – dice l’ufficiale – perché non ci si fida di Bide, non ha senso. Il nostro sostegno è sempre stato bipartisan”. E qui Haaretz, però, riporta una pesante accusa di McMaster nei confronti di Biden, come concausa “indiretta” della guerra ucraina.

Il ‘raptus dell’invasione’ e l’Afghanistan

Secondo l’ex Consigliere di Trump, fu l’umiliante e caotica ritirata dall’Afghanistan a fare scattare, nella testa di Putin, il raptus dell’invasione. Proprio in quel periodo, il capo del Cremlino scrisse il “Manifesto delle seimila parole”, per dire che l’Ucraina era sempre stata una parte della Russia. Si parlava, sopra, di realpolitik israeliana. E questo è senz’altro vero, ma ora forse qualcosa sta cambiando. Davanti ai massacri in diretta, davanti alle stragi, molti commentatori cominciano ad alzare le loro voci.

Critiche interne

Lo fa Amos Harel, che titola, significativamente, che “mentre Putin commette crimini di guerra, Israele sta ancora camminando sui gusci d’uovo”. Ma, soprattutto, lo fa l’ex direttore dell’Agenzia ebraica, Natan Sharansky, profondo conoscitore della Russia e delle sue galere, al tempo dell’Unione Sovietica. Quando fu imprigionato, a lungo, per le sue battaglie a sostegno dei diritti umani. Sharansky ha detto che Israele “dovrebbe dare armi difensive all’Ucraina” e che “pagherà un prezzo nel mondo libero, per non avere preso una chiara posizione morale contro i crimini di guerra russi”. Questa dichiarazione è di mercoledì scorso, perché poi, giovedì, Israele ha votato la risoluzione che ha espulso la Russia dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu.

Gli astenuti disobbedienti

Astenuti, invece, i grandi (e costosi) alleati arabi che gli Stati Uniti hanno nella regione: Egitto, Giordania, Emirati, Arabia Saudita, Qatar e, in cauda venenum, Kuwait. Quest’ultimo ha fatto andare su tutte le furie persino i commentatori del “Washington Post”, che lo hanno definito “un Paese di ingrati”. Beh, a questo punto, forse ha proprio ragione McMaster: la politica estera di Biden non la capisce proprio nessuno. Manco lui.

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