
Poche occasioni personali di ritorno in video e la paura costante di proporre analisi un po’ più vaste sulle ragioni della tragedia Ucraina, le cause lontane di una crisi che via via scopri essere stata coltivata a lungo, rispetto al rischio di essere accusato di essere ‘putiniano’. «Amico di Putin», l’anatema dell’infamia attuale, anche se ti limiti a ricordare qualche piccola ragione geostrategica che ha comunque la Russia.
Un po’ come essere accusati di antisemitismo nel criticare qualche violenza di troppo da parte di Israele. E il tuo antifascismo offeso si ribella ma alla fine qualcosa nascostamente cede e concede.
Spazio a due colleghi-amici che da alcuni vengono schierati su ‘fronti’ diversi.
Sulla sua pagina fecebook, Alberto, severamente critico sulla politica di espansione Nato ad est su spinta americana, un po’ ciò che spesso ripetono altri autori di Remocontro, io tra loro.
«Bucha, un massacro e il simbolo di una sconfitta.
I carri armati russi a Bucha bruciati, sventrati, volati via come fossero di cartone, con i soldati inceneriti dentro, sono il simbolo della sconfitta russa a Kiev e della resistenza ucraina con le molotov, i droni e la cyberwar, già nei primi giorni di guerra. Centinaia di civili massacrati qui sono diventati il bersaglio della frustrazione dei russi. Verità evidenti, altre negate e offuscate: quando cala la polvere della battaglia emerge l’orrore».
Sì, certo, come sempre in guerra, ma restano quei morti veri e quelle distruzioni attorno che non sono lo scenario da film. A voler ripescare nella memoria personale potrei raccontare di situazioni di guerra artatamente trasformate per aumentarne l’impatto sull’opinione pubblica. Ma allora ero testimone diretto e potevo anche smentire certe versioni ‘forzate’ denunciando le eventuali contraddizioni del racconto ufficiale dell’orrore comunque avvenuto. Lo feci per la strage di Racak in Kosovo, ma oggi su Bucha taccio. Mentre, come tutti voi, inorridisco ed assieme attendo maggiori certezze di verità. E torno a risentire puzza di guerra che, anche da lontano, è sempre di «sangue, sudore e merda». Senza nessun reducismo, sia chiaro.
Un ottimo collega in guerre lontane che ha scritto per primo sul Sole 24 ore e per l’Ispi, la fulminante definizione di William Howard Russell della guerra. Ma Ugo aggiunge molte altre considerazioni su cui riflettere, anche se non si fosse d’accordo.
«Russell raccontò un’altra storia, quella vera. E fu promosso sul campo come primo vero corrispondente di guerra nella storia del giornalismo.
Le prime immagini lente e sfocate sulla Marna e la Somme incominciarono a darci un’idea dei massacri del 1914. Come quelle drammaticamente mosse dei rangers americani, scattate da Robert Capa la mattina del 6 giugno 1944 a Omaha Beach: la più sanguinosa delle spiagge dello sbarco in Normandia. La liberazione del Kuwait nel 1991 fu la prima guerra di una ‘all news’ via cavo, la Cnn; e l’invasione dell’Iraq del 2003 la prima di una all news satellitare non occidentale, Al Jazeera».
«Come dicono alcuni esperti, questa in Ucraina sarà ricordata come “la prima guerra dei social-media”. Possiamo considerala come un’altra tragica sottovalutazione di Vladimir Putin e del suo gruppo di potere: dopo quella della capacità di resistenza dei soldati ucraini, della compattezza di Nato ed Eu, e la sopravvalutazione delle capacità dell’esercito russo. The Economist scrive che questo conflitto è diventato “l’esempio più vivido di come i social stiano cambiando il modo in cui la guerra è raccontata, vissuta e capita, e di come questo può cambiare il corso della stessa guerra”».
Sulla reale compattezza Nato e dell’Unione europea potremmo discuterne a lungo con Tramballi, e sui comportamenti statunitensi sull’Ucraina, prima, durante e -temo- dopo. Guardando magari ad altre sfide lontane da noi ma molto più vicine ai loro interessi, sull’Indo-Pacifico. Ma torniamo a Tramballi.
«Poiché questa guerra è un evento mondiale, a rafforzarne la definizione di primo conflitto dei social-media è utile ricordare che i social sono usati da 4,6 miliardi di esseri umani: il doppio che nel 2014. Risultato della capacità di raccontare usando i mezzi appropriati: prima della guerra gli ucraini erano considerati “amici” dal 55% degli americani; oggi lo sono dall’80. Un consenso al quale non arrivano antichi alleati come francesi e giapponesi».
«Nella resistenza all’aggressione russa, il trentunenne Mikhailo Fedorov, il ministro per la trasformazione digitale, è diventato importante quanto il collega della Difesa e i generali dello Stato Maggiore. In una chat aperta su Telegram, il ministero riceve 10mila messaggi al giorno: cittadini che fotografano le colonne russe, che informano sugli spostamenti del nemico, che ne filmano i crimini. “In questi giorni ognuno è un information warrior”, spiega un funzionario del ministero. Il loro contributo non è meno prezioso di quello dell’intelligence».
« […] diversamente dalla propaganda russa, gli ucraini non raccontano bugie: o meglio, ne raccontano ma molto meno degli avversari. Le loro sono soprattutto testimonianze della vita reale ai tempi di un’invasione incontrovertibilmente vera. Anche nell’immenso e manipolabile mondo virtuale, alla fine la vita reale ha più successo delle balle».
Sui ‘più pericolosi portatori di bugie‘. Certamente non i colleghi sul campo che, rischiando, raccontano ciò che a loro è consentito vedere. Colpevoli invece gran parte dei direttori, ossessionati dagli ascolti/letture che trasformano la guerra in show, meglio se con rissa, e che imprigionano gli inviati in una raffica di inutili ‘dirette’, impedendo loro di fare il loro vero mestiere di ricerca delle notizie e la loro verifica. Memoria irachena di ‘Bassora caduta’: ‘forse no’, ‘resiste, ‘presa dai marines’, ‘quelli inglesi’, ‘no gli americani’. Alla fine Bassora è caduta, ma una sola volta. Studio tv trasferito in trincea a leggerci comunicati stampa da agenzia.
Peggio di tutti, gli opinionisti minacciosi, pieni di certezze incontrovertibili. Ho contato venti titoli dedicati alla guerra su un grande quotidiano italiano, e non ho trovato un solo accenno di dubbio, un punto interrogativo.
Tutti ad esaltare quella che io vedo diventare via via, una sempre più pericolosa ‘guerra santa’. Una aggressività politico-culturale rispetto ai diversi tentativi di analisi ed anche a facilitare una ricerca di accordo di pace che trovo quasi più pericolosa della trasparente e sgangherata disinformacja di Putin e dintorni.