Questo libro pubblicato nel 1972 è un’arma culturale e umana potentissima. Parla di questi giorni, ma anche di tutto quello che è stato in questi decenni, mentre eravamo distratti nel viavai frenetico, delle cose che accadono a nostra insaputa, davanti ai nostri occhi, mentre non siamo più in grado di connettere principi elementari e trasformarli in pensiero; mentre ci perdiamo nella moltitudine delle informazioni inutili e dogmatiche che mai giungono alla coscienza. Che si fermano sul sottile strato emotivo e reattivo che precede la dimenticanza. Tutto ciò che ci fa reagire a comando, nel bene e nel male, e che poi scivola via dalla memoria, non mette radici, non aiutata a comprendere i passi delle città invivibili.
Con un certo spirito sovversivo all’Università di Siena, nel corso di Comunicazione digitale, con il geniale professor Maurizio Masini, l’uomo che unisce persone come in quel famoso gioco enigmistico e crea dialogo e incontro come base delle conoscenze, abbiamo proposto questo testo di Calvino come ispirazione e punto di partenza. Grimaldello in grado di scardinare certezze assolute e spalancare spiragli imprevisti. Per posizionare sulle mappe della nostra vita le idee, le narrazioni e forse anche le leggende dei luoghi essenziali che forse non tutti vedono, dei personaggi che escono dai nostri personalissimi libri di storia. Per vangare la terra secca delle consuetudini che si fanno cemento e sentire le radici. Per desiderare e quindi ascoltare la mancanza delle stelle.
Per essere vivi. Per continuare ad essere vivi. Per non cedere alla tentazione di agire nell’obbedienza e quindi in uno stato di schiavitù più o meno luminoso, elegante e scintillante.
Se la città – i luoghi della politica, della società, della cultura, del lavoro, della fatica, del dolore, delle relazioni e degli scambi – è invivibile, ed è invivibile, occorre agire con coerenza nel presente, avendo chiare conoscenze e memoria, per pensare un futuro che sia migliore per tutti. Occorre l’invisibile, ciò che non si vede o non si vede ancora, o non conviene a tutti vedere, per costruire il possibile passando dai sentieri strettissimi dell’impossibile.
Parliamo della vita, quindi. Della semplicità dolce e poetica delle cose che ci rendono quello che siamo. Noi siamo la terra che calpestiamo, gli amici che abbiamo, le cose che mangiamo, i pacchi che arrivano da casa per i fuori sede dell’università, quelli condivisi con tutti gli altri. Noi siamo la musica. La filosofia che ci resta dentro. Il libro che ci ha spalancato la mente. Non i soldi, gli interessi, il potere, la cattiveria, la crudeltà, il cinismo. Noi siamo il ponte che abbiamo percorso mille volte per costruire un’immagine di quello che desideriamo e che vogliano essere. Incontri sulla soglia. Sguardi rapiti d’amore, altri lasciati vagare negli orizzonti infiniti, con gli occhi socchiusi. Un corredo di idee, legami, citazioni, storie raccontate, leggende sbilenche tenute insieme dal lessico familiare, epopee inventate, eroi di ogni giorno, scritte sui muri, angoli di mondo dove rifugiarsi, dove perdersi e ritrovarsi.
In questo corso, in tempo di guerra, abbiamo chiesto agli ottanta studenti di portare se stessi, origine, sogni, poetica. Segni, tracce, spaesamento, esperienze. Senza staccare i piedi da terra e senza questa fioritura nel cuore non potremmo costruire un ponte, tutti insieme, per creare le nostre mappe sognanti, più vere delle mappe che siamo abituati a conoscere. Mappe che mettono in relazione storia e storie con lo scopo di comporre un miracolo.
Alla radice della parola miracolo c’è l’ammirare, la meraviglia. Non parliamo di eventi soprannaturali e insondabili, ma di quello che decifriamo, meravigliandoci, di un testo, di un luogo, di una situazione. Di qualcosa che ci parla loquacemente delle credenze e della comunità in cui accade ciò che si compone davanti ai nostri occhi inaspettatamente.
Non lo vedo se non ci credo, si intitola il corso, è questo riconoscere e riconoscersi, scomporre e ricomporre forme. Non c’è obbligo di credere e neanche di vedere. Ma c’è la necessità di farlo. Di agire tra profondità e leggerezza, sentendo le radici sotto i piedi e immaginando scenari di utopia. Credere come fiducia indistruttibile del proprio essere umano. Quindi irrorata dal dubbio che rende fertile e contiene il coraggio di vedere l’essenza oltre l’apparenza.
Non si può essere creativi, vivi e liberi, se non partendo dal proprio vissuto, dalle esperienze e dai sogni, dalla bellezza remota e da quella che ci aspettiamo di sognare. Le idee prendono forza e sono decisive se attraversano il nostro modo di essere, se ci feriscono, se ci mettono in dubbio, se creano la distanza che ci occorre per essere nello stesso tempo protagonisti e osservatori.
Siamo qui per continuare a formarci umanamente e culturalmente ogni giorno, fino all’ultimo della nostra esistenza. Per farlo individualmente e coralmente. Per cogliere la meraviglia dell’invisibile che crea narrazioni comuni e legami, che agisce nel profondo e nella leggerezza. Chiudendo con la frase completa di Italo Calvino nelle Città Invisibili: “Le città sono un insieme di tante cose: di memorie, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi…”
Ecco, in tempi oscuri, non pieghiamo lo sguardo sulle necessità truci, sul cinismo e sull’assenza di autonomia critica. Non aggiungiamo rumore al rumore di fondo. Attiviamo tutto quello che è in noi per rendere la cultura un terreno fertile dove seminare, dove continuare a coltivare bellezza, giustizia, libertà, ascolto, pace, conoscenze, storia, sogni e città poetiche. Non invivibili, ma invisibili. Provvisoriamente invisibili. Ma splendidamente esistenti nel desiderio e nell’idea di un futuro possibile sovversivamente gentile.