Quindi, quando parliamo di qualcosa, dovremmo rispondere nella costruzione di una narrazione o di un articolo a semplici domande: Chi? Che cosa? Dove? Quando? Perché?
Esempio: Tal dei Tali, nella mattinata dì venerdì scorso, ha rubato una mela da una bancarella del mercato di San Quirico perché- ha detto al fruttivendolo – aveva fame (oppure perché è cattivo; o ancora, perché ha avuto una visione mistica che lo induceva a rubare il frutto proibito).
Esempio 2: Settanta persone sono morte affogate in mare al largo di Lampedusa nell’ultima settimana perché non sono state soccorse (oppure perché il barcone è affondato per l’eccessivo numero di persone a bordo e i soccorsi sono arrivati in ritardo; o perché il mare era in burrasca).
Questo per dire che nelle regole di una narrazione, di fronte a fatti indiscutibili, è il perché che cambia il punto di vista.
Eppure mi pare che in questa ultima fase storica è proprio il “perché” la prima vittima della narrazione. Sparisce dal racconto, lasciando spazio alle verità indiscutibili, spesso legate a una qualche forma di propaganda.
Penso al decoro. Quanti articoli, trasmissioni, denunce politiche sullo scandalo delle persone che dormono all’addiaccio, cercando rifugi improvvisati. Recentemente a Milano una signora denunciava il fatto che in un certo punto del quartiere Isola qualcuno la notte, in pieno inverno, tirasse su una tenda per dormire. E quando lei passeggiava con i cagnolini, la mattina, doveva subire l’affronto delle cartacce e delle cose brutte che i suoi tesorini potevano ingurgitare.
Notizia: Tal dei Tali, nelle scorse settimane, dormiva in una tenda improvvisata riparato da un cespuglio in un’aiuola nel quartiere Isola a Milano. La signora per bene col cagnolino ha denunciato questo oltraggio al decoro.
Che cosa manca? Il perché. Perché Tal dei Tali, invece di dormire in un letto caldo dentro una casa con classe energetica A, dorme all’aperto con temperature vicino allo zero? Non c’è il perché; nella narrazione sul decoro che ci ha devastato per anni, imponendoci decreti-sciocchezza di sindaci incapaci non trova spazio il perché. E mediaticamente questa efferatezza è passata (eccezioni a parte, ma qui parliamo di quel flusso maggioritario e potente che crea dipendenza e ottusità, che regola il conformismo culturale del Paese).
Secondo questa visione mediatica esiste un presente continuo, ogni cosa ha un’origine nel momento stesso in cui avviene il fatto che offende la signora col cagnolino. Non esiste né un prima e neanche un dopo.
Porsi il perché nel racconto vorrebbe dire capire quello che c’è stato prima, cogliere le contraddizioni della società, e anche chiedersi che cosa è accaduto dopo la denuncia: sono arrivate le cosiddette forze dell’ordine con gli idranti e hanno sgomberato il povero senza lavoro e senza casa (ma a noi non interessa, immagino sostenga il caporedattore del giornale che pensa di fare più lettori o più clic assecondando gli istinti più stupidi della cittadinanza). E il poveraccio dove dormirà la notte seguente, per non turbare il cane della signora e per non mettere in discussione l’autorità dei sindaci sceriffi e del loro braccio armato?
La sconfitta del perché, la cancellazione simbolica delle cause, della storia e della memoria, sono attivi da decenni nella nostra cultura. Per essere dalla parte del più forte, dalla parte dei vincenti, di chi comanda e fa carriera, occorre dimenticare le sfumature, far finta di accettare per buone le regole dell’indifferenza e saper tralasciare le domande. Basta guardare uno degli show televisivi in questi tempi di guerra per capire che siamo nelle mani degli estremisti. Ma non degli estremisti politici che con le loro posizioni allargano il campo dialettico delle posizioni, siamo nelle mani di quel circo mediatico che da decenni domina lo spettacolo dell’informazione e lo domina attraverso un estremismo verbale e sintetico che non ammette deroghe né contraddizioni. Sono gli estremisti del luogo comune, i guerriglieri della verità stabilita da chi comanda, i saccenti che poco sanno e tanto zittiscono chi sa.
È una deriva autoritaria che mette paura. In qualunque modo uno la pensi su guerre, decoro, migrazioni, nazismo, ambiente.
I filosofi dell’antichità sapevano già che per organizzare un discorso servissero delle domande. Ci sono tanti esempi di Loci argomentorum che pongono un numero maggiore di domande per produrre risposte significative e sviscerare argomenti al fine di comprendere di che cosa parliamo quando parliamo di qualcosa. Magnifico è legare al “perché” domande tipo: come, in che modo, a chi giova. Parliamo di un’arte, la retorica. Quello che mi preoccupa è la tendenza a ridurle queste domande, ad accettare per buone definizioni ideologiche e dogmatiche, senza mai mettere in conto il fatto che una buona domanda può dare origine a buoni argomenti, a risposte che ci aiutano, collettivamente, a capire. Senza paure, perché la cosa peggiore che può accaderci, a parte quello di essere coinvolti ancora di più in una guerra tragica, è non avere più possibilità di capire le cause, limitandoci a ululare sugli effetti, incapaci di approfondire, di sovvertire luoghi comuni e di vedere oltre lo schermo.
La storia è più lunga e profonda di questo momento efferato. Ma se non lo capiamo, se non continuiamo ad esercitare il nostro diritto alla conoscenza e al dubbio, saremo solo e sempre ostaggi. Di qualunque retorica di guerra – parafrasando un ottimo testo su Strisciarossa di Pietro Spataro – come se essa fosse di nuovo e ancora la “sola igiene del mondo”.