
Si chiama lato debole della difesa. In pallacanestro, è quello dove non c’è la palla e per questo l’attenzione della squadra avversaria (e degli arbitri) e minima. E quindi bisogna attaccare per massimizzare i risultati. Ne sa qualcosa il principe bin Salman che, approfittando di tutti i riflettori puntati sulla crisi ucraina, l’altro giorno ha compiuto un massacro nello Yemen. Un bombardamento aereo saudita su un centro di detenzione dei ribelli Houthi (sciiti), a Saada, ha fatto una carneficina. “Medici senza Frontiere” parla di un numero imprecisato di vittime. Oltre cento. La verità è che è immediatamente iniziato lo scaricabarile. L’Onu, che predica bene e razzola male, dice per bocca del Segretario Generale Antonio Guterres, che questo scempio deve finire. I sauditi balbettano delle scuse e dicono di non essere stati avvisati dei possibili “danni collaterali”.
Basta abbassare la guardia, insomma, per ritrovarsi catapultati in trincee di prima linea, su un fronte del fuoco che cova perennemente sotto la cenere. L’altro ieri si è risvegliato, sanguinosamente, lo Yemen. Un angolo della Penisola arabica dimenticato dal Signore, dove si fronteggiano, da una vita, sunniti e sciiti. Cioè, per farla breve e farci capire, l’Arabia Saudita e l’Iran degli ayatollah. Questa guerra “per procura”, finora, ha fatto una valanga di morti e ha innestato esodi biblici di profughi. E siccome a qualcuno, forse, fa anche comodo, tutti fanno finta di battersi per la pace. Ma poi, in effetti, nel migliore dei casi, sono girati dall’altro lato. D’altro canto, tutti sanno che si è trattato, né più e né meno, che di una rappresaglia, per rispondere a un attacco di droni, fatto lunedì scorso contro gli Emirati Arabi Uniti.
Il problema, però, non sta solo nella continua escalation della contrapposizione tra sunniti e sciiti. No, la verità e che così facendo si getta altra benzina sul fuoco di una macro-area di crisi che vede il Golfo Persico epicentro di tutte le tensioni. Insomma, attaccare i ribelli Houthi equivale ad attaccare l’Iran. Da un punto di vista diplomatico, l’equazione è questa. E potrebbe pesare in modo formidabile sulle ulteriori strategie degli ayatollah a Vienna, per il nucleare, e con Mosca e Ankara per possibili nuove convergenze strategiche. È vero che il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha invocato l’allentamento della tensione. Ma sono solo chiacchiere. La Casa Bianca conosce benissimo in anticipo tutte le mosse dell’Arabia Saudita. Così come le conoscono gli israeliani.
Riad e Gerusalemme stanno tirando per la giacca Joe Biden, sperando di arrivare a uno scontro frontale con Teheran. È un gioco pericoloso, che non tiene conto di tutte le devastanti ripercussioni diplomatiche che un tale disegno potrebbe avere. La controprova di quanto diciamo è arrivata immediatamente, attraverso la prima pagina del Teheran Times. Il giornale degli ayatollah batte un titolone a caratteri cubitali: “L’Iran esclude qualsiasi prospettiva di accordo a interim sul nucleare”. Più chiaro di così… Lo stesso quotidiano spara a zero (è il caso di dirlo) contro gli “assassini” che forniscono le armi e gli esplosivi per colpire la popolazione dello Yemen. Una crisi, è ribadito, dove la comunità internazionale sta utilizzando “2 pesi e 2 misure”.
E che il prezzo che gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i loro alleati devono pagare per questi attacchi sia salato, viene sottolineato da un terzo articolo del Teheran Times. Dove si legge che il Presidente Raisi auspica una collaborazione strategica sempre più stretta con la Russia di Putin. Forse ora anche coloro che non masticano molto di relazioni internazionali, capiscono perché la politica estera americana continua a essere caratterizzata da costanti oscillazioni. Uno “zigzagging” frutto, certo, della complessa evoluzione degli scenari internazionali, ma che è anche la risultante di una Presidenza Biden di sicuro deludente e non all’altezza delle sfide che gli lancia uno statista scaltro e cinico come Putin.
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