L’economia ideologica di Erdogan sta portando la Turchia alla catastrofe

Le convinzioni ideologiche di Erdogan rischiano di far deragliare l’economia del Paese, avverte Vittorio Da Rold che da oggi arricchisce Remocontro con la sua collaborazione. Vittorio è un prestigioso collega e un amico. ha iniziato la carriera di giornalista nel 1986 a ItaliaOggi per poi passare al Sole 24 ore dopo aver collaborato all’Ipsoa di Francesco Zuzic e Pietro Angeli. Attualmente collabora con Domani, e da subito con Remocontro. Con lui abbiamo condiviso anche molta Turchia.

«Erdogan non ha capito che non si può gestire un’economia dinamica e aperta ai commerci internazionali come quella turca come se fosse un piccolo emirato del secolo scorso».   

Economia autarchica e di regime

La lira turca era quotata ieri a 12,7 per dollaro dopo essere scesa del 6,9% mercoledì, in un altro giorno sulle montagne russe. Nonostante la lira turca abbia recuperato il 50% del suo valore la scorsa settimana a seguito di massicci (e molto costosi) interventi di mercato operati dalla banca centrale turca che avrebbe venduto 8 miliardi di dollari per sostenere la moneta locale riducendo però le sue riserve strategiche in valuta forte. Il governo Erdogan inoltre ha messo in campo anche una seconda manovra di sostegno consistente in garanzie pubbliche (a carico della fiscalità generale e cioè del bilancio pubblico) a difesa della svalutazione nei conti correnti in valuta locale.

Nonostante questi due costosi interventi quest’anno la lira ha perso il 40% del suo valore da inizio anno. Un disastro annunciato per chi vive di pensione o salario fisso che vede ogni giorno aumentare il caro vita e calare il potere d’acquisto.

Più 50% salati minimi sempre da fame

Al punto che il presidente Erdogan per cercare di lenire in qualche modo i problemi sociali per chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese, ha promesso  di aumentare del 50% i salari minimi (usati da circa il 40% della forza lavoro in Turchia), imitando la procedura della scala mobile in vigore in Italia negli anni 80. Senza contare le lunghe file di clienti davanti ai fornai per acquistare il pane a prezzo calmierato che i municipi di Ankara e Istanbul (in mano all’opposizione del CHP, il partico laico e socialdemocratico), stanno offrendo a prezzo politico per fronteggiare l’emergenza.

La guerra manzoniana del pane

I funzionari governativi dell’annonaria invece chiedono di non alzare i prezzi ai fornai minacciando salate multe nonostante i prezzi di produzione siano saliti alle stelle a causa dell’inflazione che galoppa al 21% e si prevede possa salire al 30% nel 2022. Il risultato è l’attuale politica governativa di repressione conduce agli scaffali vuoti, alla chiusura dei negozi e verso il mercato nero.

Tuttavia, il neo ministro delle Finanze turco, Nureddin Nebati, un fedelissimo di Erdogan, ha dichiarato mercoledì che le oscillazioni attuali della lira non sono preoccupanti e che tornerà a livelli normali. Possibile?

I libri sono diventati un lusso

Con il crollo della moneta, gli studenti universitari all’ultimo anno faticano a permettersi i libri necessari per la loro tesi e ancor di più i saggi o romanzi. In Turchia i libri stanno diventando un lusso per tutti. Il settore editoriale, fortemente dipendente dalle importazioni di carta, è stato duramente colpito dalla crisi valutaria. A rischio di mettere a tacere le poche voci ancora dissonanti del Paese.

Le cause della crisi economica e valutaria

La convinzione del presidente turco Erdogan è che i tassi di interesse causano inflazione, sebbene l’ortodossia economica prevalente si esprima in modo diametralmente opposto. Inoltre Erdogan, seguendo un precetto musulmano contro l’usura contenuto nel Corano, è ferocemente contrario all’aumento dei tassi, unica mossa che potrebbe frenare la spirala dei prezzi a due cifre.

Questi due postulati del presidente turco potrebbero essere esplosive per l’economia turca, un tempo 16esima economia globale e ora solo 21esima, secondo uno studio recente del Fondo monetario internazionale.

Tassi d’interesse, regole e teste dure

Continuando a non alzare i tassi la Turchia rischia la corsa agli sportelli bancari per salvare i risparmi di una vita dalla spirale inflazionistica convertendoli in dollari o la fuga dei capitali all’estero secondo una sequenza economica ben nota ai paesi sudamericani, come l’Argentina. Erdogan non sente ragioni e parla di “guerra di indipendenza” contro i “signori dei tassi internazionali” e delle agenzie di rating, adombrando inesistenti complotti internazionali contro il paese della Mezzaluna sul Bosforo.

Chi da crisi si impone, la crisi depone

La verità è che Erdogan prese il potere proprio dopo una drammatica crisi economica nel 2002 che costrinse l’allora ministro delle Finanze, Kemal Dervis, ex direttore europeo del FMI, a varare impopolari riforme di tagli sociali, ricapitalizzazioni bancarie e nuovi poteri di sorveglianza alla banca centrale turca. Il laico Dervis perse le elezioni politiche nel 2002 a favore del partito filo-islamico AKP di Erdogan, ma ora l’attuale presidente sta smontando quelle preziose riforme strutturali che avevano garantito una crescita impetuosa del Pil turco e il raddoppio, in venti anni, del Pil pro capite dei turchi. 

Erdogan non ha capito che non si può gestire un’economia dinamica e aperta ai commerci internazionali come quella turca come se fosse un piccolo emirato del secolo scorso.   

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