
Noi che veniamo da Marte siamo così. Ci piace discutere, inventare, scambiarci pareri e costruire macchine incredibili che probabilmente non sono adatte a volare. Siamo sempre lì a non accettare passivamente il tempo che scorre, la camomilla della politica, la penosa resa del mestiere più bello del mondo, la noia dell’essere stati, la ferita dell’essere ancora. Le paure e l’adrenalina, la furia magica e il preferire di no.
Quattro anni e mezzo di riflessioni, narrazioni, invettive sul mondo che ci è mutato davanti al muso. Come sporgersi sull’abisso.
Gli anni di Polemos, sul piano personale, sono quelli del cambiamento dopo il trauma. Quelli della perdita delle certezze, dell’abbandono del giornalismo come fonte di reddito e come modello, come mezzo per rivoluzionare il mondo o per lo meno per sentirsi in buona fede di fronte al mondo immutabile nelle sue ingiustizie e miserie. Gli anni difficili in cui il margine sul quale poggiano le sicurezze si sfrangia in mille possibilità che mettono a nudo e rendono fragili e forti. Gli anni in cui senza piegare la testa ho imparato ad accettare la sconfitta. E non è poco.
Una cura. Penso che anche Remocontro per Ennio abbia lo stesso effetto. L’idea di prendersi cura, di se stessi, e nel contempo dei sogni del mondo, di quelli della giustizia sociale e della conoscenza perduta in mille rivoli di super informazione. Così, ci ragioniamo su in questo scampolo finale di 2021.
Per il resto si vedrà.