Lettere d’amore (perdute, ritrovate)

A un certo punto della serata, nel teatro scende il buio, sul palco in una nicchia di luce il violoncellista suona una lettera d’amore. Ombre e silenzi, le dita che sapienti scivolano sulla tastiera, rincorse dall’archetto che coglie bassi struggenti e melodie delicate. Quasi un dialogo, anzi sicuramente un dialogo di dolcezze e dubbi, corde pizzicate e poi a seguire un capriccio di velocissimi passaggi – le dita catturano lucciole e scintillano nell’oscurità.

Il frammento di un concerto magnifico. Sandro Laffranchini, primo violoncellista della Scala, ha messo in scena la lettera d’amore di György Ligeti alla collega studentessa dell’Accademia musicale di Budapest, Annuss Virány. Il grande compositore ungherese, innamorato segretamente della giovane violoncellista, le scrisse questo Dialogo e glielo donò alla fine degli anni Quaranta. Lei non lo suonò mai.

Fuori piove. San Quirico d’Orcia è un deserto. Laffranchini, virtuoso e poetico, sul piccolo palco del teatro di Palazzo Chigi, suona per noi, un pubblico gentile di appassionati di campagna, e prima di ogni pezzo ne narra la genesi. Dialogo e Capriccio fanno parte della Sonata per violoncello solo di Ligeti; un lavoro musicale accolto male dall’Unione dei compositori sovietica e per questo rimasto per venti anni nel dimenticatoio, prima di esplodere a giusta fama grazie al grande Rostropovich.

Fissati come siamo con le lettere d’amore sovversive è stato bellissimo. Ascoltare e immaginare.

Di Ligeti e del suo talento sappiamo tutto. Di Annuss non sappiamo niente. Chissà se la giovane violoncellista abbia fatto concerti, sia diventata madre o sia partita per chissà quale viaggio; chissà se negli anni successivi si è fermata una sera, nella penombra della sua vita e ascoltando il violoncello ha scoperto il mistero di queste note sussurrate, carezzate, scritte su uno spartito ingiallito. Laffranchini, che è gentile, ha detto che probabilmente non era in grado di suonare un pezzo da virtuosi. Ed è per questo che si è limitata a ringraziare e a non cogliere il prodigio. E neanche l’amore.

Ascolto, viaggio. Mi piace pensare a Budapest e alle sue meraviglie, ai luoghi fatti da esseri umani, da amori e sguardi, da memorie che non sono solo quelle delle guerre e degli armistizi, delle corti e di ferro o di quelle di mare, della politica e dei suoi leader, ma sono intime, delicate e sublimi. Perdute in una notte qualunque sotto una nevicata furibonda, ritrovate per caso in un cassetto di una vecchia madia, con il futuro a raccontarci il passato, il valore di quel momento tra tanti. Così si legano come fili colorati gli antichi pensieri, i frammenti di vite, di chi suona e di chi ascolta, di chi partecipa al rito prendendo tra le dita un sottilissimo istante, delle vite che abbiamo nel cuore e negli occhi e ne fa tesoro, dolcezza e amore. Qualunque amore esso sia.

Fuori continua a piovere. Il concerto di Sandro Laffranchini prosegue, saltando qua e là nelle nostre storie, nell’immaginario che abbiamo disegnato nei decenni, intrecciando la musica che si accende nella rilettura dei Beatles e di Bach. Oltre a Ligeti. Oltre agli applausi, ai ringraziamenti. A tutto quello che rende un incontro un dono, fertile.

La cultura a questo serve. A smuovere e a aprire porte e se serve spalancare finestre, spegnere le luci abbacinanti dei luoghi comuni, toglierci dalla orrida posizione dello spettatore in un’arena che è sempre mediatica, dove non esiste niente di noi, passiva e truce. Anche quando è milionaria e scintillante, anche quando sembra che è per tutti ed è invece un tradimento.

Nell’epoca dello sfarzo inutile e dell’arte mastodontica come valore a servizio di pochi, una serata fredda nel piccolo teatrino, in un luogo diverso dallo sciocchezzaio di tendenza, crea quel disagio, uno straniamento, che rende piacevole il pensiero. Un seme sotto la neve. Perché torneremo a vivere, a fare della bellezza la bandiera disinteressata delle nostre comunità; ci libereremo del tentativo di rinchiuderci in spazi senza cura, senza dolcezza, senza passione e rovesceremo ogni luogo comune anche se adesso ci appare granitico e indiscutibile. Saremo la lettera d’amore di Ligeti. Arriveremo quando sarà necessario e non importa se la riceverà o meno Annuss: sarà di tutti. Perché la cultura è di tutti, come i luoghi in cui viviamo e che sono nello stesso tempo frutto della nostra immaginazione e del nostro agire. Di ciò che siamo e di ciò che vogliamo essere. Qui e ora.

Tags: Polemos
Condividi:
Altri Articoli
Remocontro