
Anche nel Medioevo l’importanza di un bagno era nota a tutti, ma questo era possibile solo se, per prima cosa, era disponibile acqua in abbondanza. Chi poteva scaldarla, si immergeva comodamente in una tinozza di legno e ciò significava però che aveva legna da bruciare, una grande pentola di rame per contenerla, una casa con più stanze e servitù che lo preparava: insomma un benestante. Il bagno era quindi una pratica riservata a pochi e, per gli altri, solo i bagni pubblici. Dopo le sontuose terme dell’epoca romana i tempi tuttavia erano molto cambiati: i bagni pubblici godevano di una pessima reputazione, quasi di luoghi di malaffare (ed in parte era vero), ma soprattutto, le inevitabili nudità dei corpi erano considerate peccaminose.
Se il rituale del bagno si svolgeva poi in ambito domestico, era regolato da rigide regole: prima il padre di famiglia e via via fino ai figli più giovani utilizzando però sempre la stessa acqua. Probabilmente l’antico modo di dire ‘gettare via il bambino assieme all’acqua sporca’ risale proprio a quel tempo. Alla fine però anche l’uomo medievale, quando poteva, prendeva un bagno e ciò poteva avvenire in un fiume, stagione permettendo, o anche in vasche naturali ripiene di acque termali a temperatura più confortevole.
Vista la precarietà delle condizioni igieniche, ma non la loro mancanza in assoluto, è intuibile che alcune malattie (e la paura di contrarle) fossero molto diffuse soprattutto nelle città, dove maggiore era la possibilità di contatti. Al primo posto ovviamente la peste, il vero flagello del Medioevo, che si poteva manifestare in due forme: ‘bubbonica’, ovvero con l’insorgenza di bubboni purulenti sul corpo, o polmonare. Tra l’inizio del XIII secolo e la fine del XII si contarono cicli epidemici della durata di circa un trentennio in Germania, in Inghilterra e in Italia che provocarono milioni di vittime. La peste tuttavia non fu l’unica malattia: data la mancanza di cure idonee sulla popolazione infierirono anche varicella, scarlattina, parotite, meningite (soprattutto sui soggetti più giovani), vaiolo, morbillo e tubercolosi.
Un’altra malattia oggi dimenticata, ma che devastò l’Europa, fu la lebbra alla quale si pose rimedio con l’isolamento assoluto dei malati. Lentamente la malattia scomparve, ma qualche caso fu ancora segnalato in Estremo Oriente nel secolo scorso (qualche caso ancora poggi). Il catalogo non sarebbe completo se non fosse citata anche la malaria, che uccideva lentamente indebolendo l’organismo e colpendo tra l’altro individualmente in maniera indiscriminata senza distinzioni di classe o collettivamente un esercito o l’intera popolazione di una regione.
L’uomo medievale era sovente rassegnato alla malattia, né il medico poteva porvi rimedio, soprattutto perché in alcuni casi era terrorizzato dal pericolo di contrarre lui stesso la malattia del paziente. Pochi tra l’altro potevano rivolgersi a un medico, il cui intervento era costoso. Abbondava per prima cosa il ricorso ad amuleti o a pratiche semi-magiche: Arnaldo da Villanova, un famoso medico portoghese del XIII secolo, ne raccomandava l’uso e un altro suo collega era convinto che i cattivi odori scacciassero il morbo. Il nodo principale era che gli studi del greco Ippocrate e del romano Galeno, medici pagani le cui dottrine in quanto tali erano da rigettare in toto, non furono più studiati per secoli, sebbene Ippocrate stesso avesse posto a fondamento della sua medicina che non esistevano cause ‘soprannaturali’ delle malattie.
Al contrario dietro la malattia si vedeva con grande frequenza l’azione del Maligno e la cura diventava un campo di battaglia spirituale soprattutto perché il corpo era sede dell’anima. L’assistenza ai malati diventava così un accompagnamento verso la fine, anche se spesso era proprio il comportamento dei medici ad accelerarla. Infusi di erbe, di cui spesso si ignoravano le reali conseguenze sull’organismo, si accompagnavano così a pratiche discutibili come i salassi e la fine era inevitabile. Al contrario, in questo desolante quadro, qualche volta i chirurghi, meno considerati dei medici, riuscivano invece a guarire i pazienti, ma si trattava di casi fortunati, o della lunga esperienza maturata con le ferite e le amputazioni di guerra.