A 80 anni da Pearl Harbor, Giappone ancora equivoco su quel passato

La mattina del 7 dicembre 1941 l’attacco giapponese a sorpresa alla base statunitense di Pearl Harbor alla Hawai. 2403 statunitensi persero la vita nella proditoria azione di guerra, portata a conclusione con l’altra tragedia delle bombe nucleari Usa su Hiroshima e Nagasaki. Corea del Sud e Cina oggi, irritate dalla visita al tempio simbolo dei crimini di guerra nipponici.
A distanza di 80 anni, Tokyo ha ancora difficoltà a fare i conti con il proprio passato. E non manca di suscitare le ire più che motivate dei vicini di casa.

80 anni fa, ‘Tora! Tora! Tora!’

Pearl Harbor la domenica mattina del 7 dicembre 1941. Per 90 minuti, nell’arcipelago delle Hawaii si scatena l’inferno. «Incursione aerea su Pearl Harbor. Non è un’esercitazione!», lancia l’allarme il capitano Logan Ramsey. Impossibile resistere: gli Usa si fanno trovare impreparati. Mentre il Comandante della marina imperiale giapponese Mitsuo Fuchida, l’unico autorizzato a usare la radio, festeggia il successo dell’operazione attuata in assenza di una dichiarazione di guerra al grido di «Tora! Tora! Tora!». Tora in giapponese tigre, ma in questo caso è l’acronimo da totsugeki di raigeki (attacco lampo).

Bilanci tragico, già dal primi giorno

Il bollettino di guerra è tragico, ricostruisce il Manifesto: «2403 statunitensi, tra civili e militari, perdono la vita. 19 navi e 188 aerei distrutti. I giapponesi invece perdono 29 aerei e 64 uomini». Dopo l’attacco, l’imperatore Hirohito visita il controverso santuario shintoista Yasukuni di Tokyo per commemorare i soldati giapponesi morti combattendo. E lo fa per circa dieci volte dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le rimostranze della Corea del Sud e della Cina, che di morti per mano giapponese ne hanno subito molti più. Il tempio, costruito nel 1869 dall’imperatore Meiji, attira le ire dei vicini asiatici perché rappresenta lo spirito belligerante e colonialista del Giappone che ha coinvolto, direttamente, Pechino e Seul.

Santuario provocazione

La malinconia guerriera giapponese che trova il suo simbolo nel santuario shintoista Yasukuni di Tokyo. Per i vicini di casa nel mar del Giappone, c’è ancora oggi una ferita aperta e mai sanata dal Giappone moderno. Tra i nomi contenuti nel libro delle anime presente nel santuario: in una lunga lista di circa 2 milioni e mezzo di militari caduti durante i conflitti condotti dal Giappone dal 1853, ci sono i nomi di circa mille persone considerate «criminali di guerra». «Tra questi, figurano anche 14 persone classificate come criminali di Classe A, cioè ritenuti responsabili di aver commesso crimini contro la pace», precisa Serena Console.

Criminali di guerra fatti eroi

L’imperatore Hirohito aveva interrotto le visite ufficiali al santuario quando si iniziò a commemorare i criminali di guerra giustiziati al termine del secondo conflitto mondiale. Tra questi, anche Hideki Tojo, l’ex primo ministro giapponese dal 1941 al 1944, condannato a morte per crimini di guerra e giustiziato nel 1948. Ma ieri un gruppo di circa cento parlamentari giapponesi ha fatto visita al controverso santuario di Tokyo, scatenando le proteste di Cina e Corea del Sud. Nel folto gruppo di visitatori, c’erano anche nove vice ministri e assistenti speciali del gabinetto del premier conservatore nipponico Fumio Kishida.

Preoccupante nazionalismo di ritorno

Il primo ministro giapponese non si è unito alla visita, per evitare di farsi travolgere dall’ondata di critiche che aveva colpito l’ex premier Shinzo Abe nel 2013. «Allora come oggi, ogni visita di un esponente politico giapponese a Yasukuni fa storcere il naso a Pechino e Seul e Pyongyang assieme, considerata come segno di mancanza di rimorso per le azioni di guerra spesso feroci commesse dall’impero giapponese, prima dell’adozione della costituzione pacifista per volontà degli Usa al termine della seconda guerra mondiale, segnata sul fronte opposto della sempre discusso uso americano delle sole bombe atomiche contro l’uomo.

Cina comunista e Seul ‘americana’ assieme

Come prevedibile, Pechino e Seul hanno condannato il gesto dei membri del Partito Liberaldemocratico, che guida l’esecutivo nipponico. Kim dal nord parla poco ma ogni tanti lancia missili atrtorno. La Cina si è affidata al portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, per etichettare la visita dei parlamentari a Yasukuni come «una provocazione», che dimostra come il Giappone non nutra ripensamenti sulla brutalità perpetrata durante il periodo coloniale. Sulla stessa linea il ministero degli Esteri di Seul, per la visita a un santuario che «onora l’aggressione del Giappone».

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