
L’emendamento proposto dall’India di passare dalla «progressiva eliminazione (phase-out)» del carbone alla« riduzione (phase-down)» del suo utilizzo. Dagli impegni ai buoni propositi, e non è la stessa cosa.
È stato un colpo di scena finale per alcuni inatteso, «ma chi conosce bene i negoziati si aspettava qualcosa di simile», avverte Sara Gandolfi, inviata del Corriere della sera. «I cinesi fino all’ultimo sembravano quelli da convincere per far approvare il testo ma alla fine hanno lasciato uscire allo scoperto l’India che ha puntato i piedi». La differenza citata sopra. L’India è il terzo Paese per emissioni da combustibili fossili, e molta parte della sua energia deriva dal carbone (70 per cento della produzione di energia nazionale). Quattro milioni di indiani lavorano nella filiera del carbone; e il consumo è raddoppiato nell’ultimo decennio. Il governo ha progettato l’apertura di decine di nuove miniere di carbone, nonostante la promessa di investire massicciamente nelle energie rinnovabili. «Anche se annacquato, però, nel Patto di Glasgow per la prima volta c’è un impegno globale ad intensificare gli sforzi verso la riduzione (e ‘eliminazione’ come nella bozza sperata) del carbone, e la fine dei sussidi ai combustibili fossili inefficienti», la valutazione del Corriere.
Domanda difficile, quasi a volerci consolare. «È il segnale di accelerazione rispetto ai tagli alle emissioni nel breve periodo: nel 2022 i Paesi devono tornare al tavolo con piani per il 2030 più ambiziosi – spiega l’analista italiano Luca Bergamaschi, cofondatore della think tank ECCO —. Il Patto è un buon testo di compromesso, un consenso di questa portata non era scontato». Concorda anche la direttrice di Oxfam International, Gabriela Bucher: «Il lavoro inizia ora. I grandi emettitori, in particolare i Paesi ricchi, devono ascoltare la chiamata e allineare i loro obiettivi per darci le migliori possibilità di mantenere 1,5° a portata di mano. Nonostante anni di colloqui, le emissioni continuano ad aumentare».
«La COP26 ha mostrato un nuovo livello di riconoscimento politico della necessità di un maggiore sostegno ai Paesi vulnerabili per affrontare gli impatti climatici devastanti. Ma ha lasciato il compito chiave di mettere i soldi sul tavolo alla prossima COP in Egitto — spiega Alex Scott, analista della think tank europea E3G —. Ci sono stati alcuni progressi con la decisione sul raddoppio dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e il finanziamento di una rete per aiutare i Paesi a elaborare piani per affrontare perdite e danni. Ma i Paesi sviluppati non hanno accettato di proporre uno strumento di finanziamento per affrontare adeguatamente perdite e danni devastanti».
«L’Italia ha giocato, forse per la prima volta, un vero ruolo di leadership internazionale sia prima della COP26, preparando il terreno con il consenso del G20, che a Glasgow», sostiene Luca Bargamaschi. «La sfida dell’Italia è ora riuscire a tradurre questa leadership internazionale nell’attuazione domestica e in una posizione ambiziosa sul pacchetto europeo “Fit for 55” dei prossimi 10 anni e sulla sostenibilità per definire gli investimenti verdi».
Vediamo se come «amici» di quelli che vogliono eliminare anche petrolio e gas il governo sarà capace di far ripartire le rinnovabili (e non le trivelle), come ha promesso.