Secondo il Ministro per l’Ambiente cinese, Li Gao, la limitazione delle emissioni di CO2 può coesistere con lo sviluppo industriale, “ma solo se bilanciata con altre priorità, quali crescita economica e alleggerimento della povertà”. Una filosofia “cerchiobottista” che sembra calzare a pennello proprio per l’India di Narendra Modi, la quale produce il 70% della sua elettricità con il carbone. E che anche per questo è al terzo posto, al mondo, per le emissioni di CO2, il più pestifero dei gas-serra, assieme al metano e all’ozono. Dietro le quinte, i suoi governanti si difendono dicendo: “Perché dovremmo limitare il consumo del carbone, quando l’Occidente, per secoli, ha sostenuto il suo sviluppo inquinando il pianeta?”
Questa argomentazione è talmente radicata nell’establishment indiano che, a Glasgow, alla “COP26”, l’ha ripetuta sia pure indirettamente, lo stesso Modi. Il Premier ha detto che l’India punta senz’altro a raggiungere le “emissioni zero” di CO2. Ma a partire dal 2070. Una dichiarazione che, francamente, più che un impegno sembra una minaccia. Anche perché, se tutti la pensassero come l’India, per quella data non ci sarebbe più nessuna “emissione”, ma saremmo solo agli ultimi rantoli di un pianeta ormai ridotto a un tizzone.
Narendra Modi e il suo partito (BJP, Bharatiya Janata Party), però, sono obbligati a fare i conti con una popolazione di un miliardo e 300 milioni di abitanti dagli umori mutevoli, in un Paese dove non ci vuole assai per finire dal Palazzo del governo alle strade di Delhi, con la folla alle calcagna. Si spiega così la preoccupazione avuta da Modi e dal BJP di tagliare, precipitosamente, le tasse sulla benzina, il cui prezzo stava arrivando alle stelle (l’India importa l’85% del petrolio che consuma). Per ogni litro si pagherà da 5 a 7 rupie in meno. Addirittura 10 per il carburante diesel. Il Governo afferma che la scelta è stata fatta “per fare aumentare i consumi, tenere bassa l’inflazione e aiutare le classi povere e quelle medie”.
Ovviamente, nemmeno una parola sul prevedibile incremento delle emissioni inquinanti. A beneficiare del taglio, dovrebbero essere non solo i produttori di beni e servizi, ma anche l coltivatori che fanno uso di macchine agricole.
Ma il vero problema dell’India è il carbone. Su 135 centrali elettriche alimentate con questo combustibile fossile, più della metà funziona con alte emissioni fumogene. Dipende dal ciclo di approvvigionamento a singhiozzo, dato che il carbone non basta. L’incertezza, quindi, si trasferisce sulla capacità delle infrastrutture energetiche del Paese, di sostenere la ripresa post-pandemia. La Coal belt indiana si estende a est del subcontinente e comprende, principalmente, gli Stati di Jharkhand, Chhattisgarh e Odisha. Almeno 4 milioni di persone lavorano direttamente o indirettamente nell’industria del carbone. Negli ultimi 10 anni il consumo di questo combustibile fossile in India è raddoppiato. Il Paese ne importa di conseguenza e sfrutta, a pieno regime, le centrali in attività.
Tuttavia, il governo punta anche sulle rinnovabili, che attualmente contribuiscono per il 25% alla produzione di elettricità. L’ambizioso piano delle autorità di Delhi vuole portare questa percentuale al 40% entro il 2030. I costi di importazione dei materiali da utilizzare, però, frenano i progetti. Anche se qualche passo in avanti si è fatto. Arunaba Ghosh (Indian Council on Energy, Environment and Water) cita il caso della metropolitana della capitale, che per il 60% funziona grazie all’energia solare. Il problema vero, però, è che, secondo la International Energy Agency, con una popolazione fin troppo vasta, l’India nei prossimi vent’anni avrà un fabbisogno esponenziale di elettricità.
Ma per ora, purtroppo, bisogna svegliarsi e provvedere, mattina per mattina, alle necessità più urgenti. Quelle che ti fanno sopravvivere e che ti aiutano a sperare che, un giorno. potrai lasciare ai tuoi figli un pianeta più degno di essere abitato.