
Fu una spedizione fondamentale: non solo per il record di immersione che venne stabilito, ma perché aveva dimostrato che anche nelle più remote e abissali profondità del mare c’è vita. E il progetto di depositarvi scorie radioattive fu così sventato.
Eppure, lo stretto legame fra evidenza scientifica e conseguenze politiche che questo episodio di oltre sessant’anni fa rappresenta plasticamente è oggi meno evidente.
Un recente studio, The Blue Acceleration, documenta l’impennata senza precedenti dello sviluppo di attività economiche nell’oceano, e dei nuovi e tradizionali usi commerciali che lo riguardano. E l’oceano che ricopre i due terzi della superficie terrestre e possiede ancora vaste risorse inutilizzate, rappresenta una delle frontiere più promettenti per soddisfare la crescente domanda di cibo, materie prime e persino di spazio.
L’OCSE stima che il più grande settore dell’economia dell’oceano sia l’industria del petrolio e del gas off-shore: produce un terzo del valore aggiunto generato da tutte le attività economiche che avvengono nell’oceano. Circa il 70% dei maggiori depositi di idrocarburi scoperti fra il 2000 e il 2010 si trova sotto il mare, e con il progressivo esaurimento di giacimenti nelle acque meno profonde (inferiori a 400 metri), la produzione si sta spostando a maggiori profondità.
Molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in America Latina, dipendono pesantemente dall’industria degli idrocarburi. In Angola la sola produzione off-shore di petrolio contribuisce a circa il 50% del PIL del paese e all’89% delle esportazioni, mentre in Nigeria il settore del petrolio e quello del gas producono il 70% delle entrate del governo. È senza precedenti il numero di paesi africani – fra cui Mozambico, Ghana, Senegal, Mauritania, Somalia e Sudafrica – che stanno rilasciando concessioni per nuove esplorazioni off-shore. Nel sudest asiatico il settore è in espansione soprattutto in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam.
Ma un nuovo studio guidato dalla Duke University mostra che la maggior parte delle aziende multinazionali off-shore ha sede legale in paesi ad alto reddito. 100 aziende multinazionali si dividono il 60% del fatturato globale dell’economia dell’oceano, per un totale di 1100 miliardi di dollari nel 2018
Un altro settore che sta vivendo un nuovo boom è quello del cablaggio sottomarino di grandi impianti di fibra ottica da decine di miliardi di dollari. A guidare questa rinascita sono compagnie come Facebook e Google, responsabili dell’80% dei nuovi investimenti, che promettono di migliorare la trasmissione dati a livello globale puntando soprattutto all’Africa.
L’impegno a raggiungere zero emissioni di anidride carbonica nette da parte dei paesi che attualmente costituiscono il 70% del PIL globale aumenta infatti la domanda di energia ‘pulita’. Ma per essere prodotta, , essa richiede elevata intensità di minerali: litio, nickel, cobalto, manganese e grafite per la produzione di batterie, minerali rari per le turbine elettriche e i motori delle vetture elettriche, rame e argento per i pannelli solari, etc.
La Commissione Europea ha stilato una lista di ‘materie prime critiche’ (critical raw materials – CRMs), delle quali cerca di assicurare un approvvigionamento stabile. In maniera simile, gli Stati Uniti hanno adottato nel 2017 una strategia federale per assicurarsi l’accesso a 35 minerali identificati come critici per l’economia Usa. Si tratta per lo più di cobalto, zinco, manganese, titanio, ferro e oro: giacimenti di minerali il cui valore è stimato in miliardi di miliardi di dollari.
E negli anni ’60 del Novecento, Belgio, Canada, Italia, Francia, Germania, Giappone, Paesi Bassi e Stati Uniti fondarono un consorzio per stimare le riserve sottomarine e sviluppare tecnologie che permettessero di estrarre le ‘pepite di minerali’.
«Si accumulano nei fondali come pepite scure, escono come fumi grigiastri da ‘caminetti’ naturali subacquei, o si depositano su croste sottomarine». Diversamente dai depositi terrestri, quelli sottomarini permetterebbero poi di estrarre allo stesso tempo molteplici minerali dal valore commerciale di migliore qualità (vale a dire a più alto contenuto di minerali) rispetto a quelli rimasti sulla superficie terrestre. I giacimenti sottomarini sono poi anche molto più vasti.
La sola zona Clarion-Clipperton, al largo dell’Oceano Pacifico, conterrebbe una quantità di manganese, nickel, cobalto, titanio e ittrio superiore all’intera riserva terrestre. Le riserve sottomarine di cobalto sarebbero fino a 5 volte superiori rispetto a quelle di tutte le riserve terrestri. La quantità di titanio contenuta nella zona Clarion-Clipperton sembra essere 6000 volte più grande di tutte le riserve terrestri messe insieme.
L’appetibilità dei giacimenti sottomarini ha però anche una dimensione geopolitica. Il cobalto, ad esempio, fondamentale per costruire le batterie delle vetture elettriche, è estratto quasi esclusivamente nella Repubblica Democratica del Congo. Guerre, violenza, crimini e sfruttamento minorile sono da decenni inestricabilmente legati al commercio delle materie prime del paese, che tuttavia rimane uno dei più poveri al mondo. Nella produzione di cobalto raffinato la Cina è il principale produttore con l’80% del mercato.
Lo sfruttamento industriale di alcune di queste risorse potrebbe provocare danni irreversibili agli ecosistemi sottomarini, dai quali dipendiamo per la produzione del 50% dell’ossigeno che respiriamo, per regolare il clima, e per la catena alimentare. E mentre i danni potrebbero riguardarci tutti, i benefici lucrativi potrebbero concentrarsi nelle mani di pochi governi e poche compagnie multinazionali.
Una pepita di minerali rari della grandezza di una pallina da tennis potrebbe aver impiegato 14 milioni di anni a formarsi. Su scala umana, è quindi ragionevole dire che queste risorse minerarie non verranno mai rimpiazzate. E che, mentre il loro uso soddisfarebbe il consumo delle generazioni presenti, lascerebbe alle generazioni future un salatissimo conto da pagare.
gli habitat e le forme di vita che abitano le profondità del mare rimangono largamente sconosciuti. Le esplorazioni sottomarine degli ultimi decenni hanno permesso di scoprire che nelle profondità dell’oceano vivono specie di migliaia di anni (le spugne marine, ad esempio, sono grandi più o meno come un’automobile e vivono in media 2000 anni). Recenti esplorazioni continuano poi a trovare nuove sconosciute forme di vita negli abissi.
Al di fuori delle giurisdizioni nazionali le attività di estrazione nei fondali marini profondi sono regolate dall’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (International Seabed Authority, ISA), che fino a ora ha accordato 31 concessioni per esplorazioni in un’area superiore ai 1,3 milioni di chilometri: oltre quattro volte l’Italia. Attualmente la Cina è l’unico paese ad aver ottenuto dall’ISA concessioni per esplorare l’estrazione mineraria sottomarina in tutti e tre gli ecosistemi (nelle croste di ferromanganese ricche di cobalto, nelle aree ricche di solfiti polimetallici, e in quelle ricche di pepite polimetalliche).
Nella corsa alle risorse sottomarine, particolarmente delicata è la posizione dei piccoli stati insulari. Troppo piccoli e remoti per riuscire a sviluppare un mercato interno, accedere a quelli esteri, e diversificare la propria economia, essi sono in larga parte dipendenti dal resto del mondo per gli aiuti allo sviluppo, le rimesse e il turismo. Le loro acque nazionali sono in media 2000 volte più grandi del loro territorio.
Lo sfruttamento di risorse minerarie sottomarine potrebbe produrre entrate nel breve periodo per stati e compagnie, ma i benefici economici rischiano di rimanere concentrati e difficili da riconciliare con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli impatti ecologici negativi, invece, rischiano di essere colossali e di estendersi ben oltre i confini di questi paesi, con danni alle funzioni vitali che l’oceano svolge a livello globale.
A livello globale c’è quindi il rischio dell’acuirsi di ineguaglianze fra paesi e dell’inasprirsi delle ingiustizie legate ai cambiamenti climatici. «Come ha spiegato un ex Ministro dell’Ambiente di Kiribati, uno stato composto da 33 atolli sparpagliati su un’area di circa 3,5 milioni di chilometri quadrati (un’area più grande dell’India): “Prima ci dicono che abbiamo un problema perché i paesi occidentali hanno bruciato troppo carbone, e ora gli stessi paesi vogliono prendere i nostri minerali sottomarini non rinnovabili per risolvere il problema?».
A questo gigantesco lavoro di documentazione hanno lavorato Guido Alberto Casanova, Sara Cerutti (grafica), Ruben David, Francesco Fadani (grafica), Giorgio Fruscione, Gemma Ghiglia, Alberto Guidi, Alessandro Gili, Nicola Missaglia, Diana Orefice, Rosario Orlando, Alberto Rizzi, Veronica Tosetti.