Il poeta senza paura in attesa al Patronato

La poesia è bella. Il suono della poesia, delle parole che si inseguono in versi, dei silenzi che ti fanno attendere il prossimo autobus, dello zigzagare dei significati che spiazzano il comune ardire e animano visioni che non avresti mai pensato di possedere.
Bella, di strada. Di sogno e di lotta. Di cori annebbiati lungo le piazze perdute, di dimenticati sonori, lacrime e nuvole senza un cielo dove andare.
Non sono tra quelli che temono la poesia, la leggo e mi piace. La ascolto e mi esalta. Non sempre. Non tutta, non necessariamente.
Però quando appare è come un miracolo. È un miracolo.

L’altra sera, come per sbaglio, è apparsa tra le note di due musicisti e la voce di un giovane poeta siciliano che, viandante, si è fermato nel nostro luogo d’incontro. Avevo letto i suoi versi e mi sembravano interessanti. Ma quando quelle parole si sono fatte corpo e sostanza, voce e mani nel vento, ho capito che avevano qualcosa in più. Possedevano vita. Francesco, questo il nome del poeta, con la sua barbetta da studente-lavoratore e la magliettina gialla, era poesia. Lui attraversava le sue pagine dormendo sulle panchine, perdendosi nel traffico e nei ricordi, indifferentemente, dopo aver percorso milioni di passi e aver frequentato 13 corsi di formazione, dopo aver fatto 20 lavori, 2560 prelievi e 74.195 sogni.
Lo guardavo affrontare a testa alta la realtà come raramente capita di vedere. In una forma assurda e rivoluzionaria, paziente e rabbiosa, testarda, senza resa anche di fronte alle ore passate in attesa al patronato. Con quel filo di ironia che spiazza e ricompone scene di vita, mostrando contraddizioni e punti di vista nella zona d’ombra. Non abbiate paura, ci sorride beffardo. E canta il corriere, il magazziniere, il disoccupato, il venditore di collanine, il paziente in ospedale, il siciliano a un bar di Milano, l’attesa di un lavoro, dell’alba, dell’amore. E poi la fine del giorno, gli amici, le sbronze belle con gli stessi amici.

Vive di vita sua
la vita mia
maiuscola e ribelle creatura
acrobata tra realtà e utopia
spia l’infinito
dall’umana fessura
intenta ad unire
i puntini delle stelle
intenta a non voler
disegno alcuno
a stento trattenuta
da occhi e pelle
affinché non rimanga
lo spirito digiuno.

Una poesia, la sua, che non glorifica il poeta, ma celebra la comunità. Canta tutti noi che ce la facciamo faticando, le nostre incertezze, i sogni nel cassetto, gli amici sbiaditi, le lingue che non sappiamo parlare. Corale. La sua voce è la nostra. E così la sua fatica, e così le sue scommesse.
Noi siamo la sua gente. Concludo queste righe citando un poeta spettacolare, Pedro Pietri e la sua “Poesia d’amore per la mia gente”.

Poesia d’amore per la mia gente
non lasciate
che lampade artificiali
disegnino strane ombre
di voi
non sognate
se volete che i vostri sogni
s’avverino
sapevate cantare
anche prima che
vi venisse rilasciato un certificato di nascita
spegnete lo stereo
che questo paese vi ha dato
è fuori uso
il vostro respiro
è la vostra terrapromessa
se volete
davvero sentirvi ricchi
guardatevi le mani
è lì
che si trova
la definizione di magia

Ps
Il poeta di cui parlo di chiama Francesco Paolo Maccarrone, ha pubblicato un libro che si intitola: Trilogia del caos. La sera del miracolo hanno suonato con lui Andrea Andy Carrieri e Cosimo Dell’Orto. Emozione pura, contro la resa incondizionata e culturale del tempo.

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