Esplode l’inflazione, traballa l’economia e l’Inghilterra post-Brexit fa da cavia al resto dell’Europa

Il Regno Unito, suo malgrado, sta diventando un termometro: per molti commentatori, la sua nuova (e ibrida) collocazione politico-economica internazionale può essere anticipatrice, di quello che succederà presto nel resto dell’Europa.
Se le dimensioni e, quindi, l’economia “di scala”, fanno arrivare ancora attutiti, nell’Unione, i contraccolpi della transizione post-pandemia, in Inghilterra la musica è diversa.

Le dimensioni attutiscono

L’inflazione post-Brexit, da quelle parti, ormai viaggia spedita verso il 5%. Un tasso che non si vedeva da molto tempo e che preoccupa parecchio gli analisti d’Oltremanica. Il nuovo capo economista della Banca d’Inghilterra, Huw Pill, snocciola cifre che non promettono nulla di buono. Non si sbilancia, ma di questo passo è chiaro che l’Istituto centrale di emissione londinese non potrà che alzare i tassi di interesse. D’altro canto, è stato proprio il suo governatore, Andrew Bailey, a dire che “bisognerà agire sull’inflazione”. Costo del denaro più caro significa meno investimenti e, per la proprietà transitiva, meno occupazione. Peccato, perché il Pil quest’anno era previsto in crescita fino al 6,4%. Ora bisognerà rifare i conti. I fattori che hanno fatto impennare l’inflazione britannica sono diversi e hanno agito in modo concentrico.

Da rule Britannia a Britannia docet

Intendiamoci, la stessa cosa capiterà anche da noi e quindi, almeno per una volta, “Rule Britannia” diventa “Britannia docet”. Insomma, non dirige più, ma insegna. L’anno scorso, a marzo, il trend aveva toccato il suo minimo con lo 0,1%. Da allora, non ha fatto altro che risalire, esplodendo nel 2021 con il rallentare della pandemia e la ripresa della domanda. Ma il mercato globale ormai sbilanciato e la Brexit hanno fatto il resto. Anche la forzata scarsa mobilità dei lavoratori ha avuto conseguenze, sulla filiera degli approvvigionamenti. Che è stata profondamente sconvolta dal dilagare del coronavirus. Dodici mesi or sono, fare arrivare in Inghilterra un container costava 2 mila dollari. Oggi ne costa ben 18 mila, nove volte di più. Il mercato dei beni di consumo durevoli soffre pesantemente, non solo per i costi di trasporto, ma anche per l’aumento significativo del prezzo dell’energia, delle materie prime e dei semilavorati.

Conti in tasca per tutti noi

Per fare un esempio, nel 2020 un aspirapolvere, mediamente, aveva un prezzo di 49 sterline. Nel 2021, la stessa marca ne vale ben 79. Così, gonfiati all’origine, i costi dei beni di consumo, specie di quelli durevoli, scaricano lungo tutta la filiera gli aumenti. Dagli importatori, ai grossisti, ai dettaglianti è una litania di proteste. Che culminano, inevitabilmente, con quelle clamorose dei consumatori finali, costretti a pagare prezzi che vanno dal 20 al 80% in più, per il medesimo bene, rispetto a prima. Lo stesso vale per gli alimentari, con i prodotti agricoli e la carne in deciso aumento. Una considerazione particolare va fatta per i cibi conservati, che i supermercati sono stati costretti a rincarare, perché viene utilizzata CO2 per la loro stabilizzazione. Così, come imposto dai protocolli ambientali, le aziende che la impiegano devono pagare delle penali prestabilite, che fanno lievitare il prezzo finale del bene.

Prodotti igienizzanti

Non sta meglio il settore dei prodotti igienizzanti. Alcune grandi aziende, che utilizzano l’olio di palma per saponi e detergenti, hanno dichiarato di dover pagare prezzi esorbitanti per la carenza di manodopera in alcuni dei Paesi storicamente produttori. Come l’Indonesia, dove il costo di questo “raw material” si è alzato dell’82%. La stessa cosa con l’olio di soia in Brasile. Non si salva nemmeno il cibo per i gatti e per i cani che ormai costa quanto quello per gli “umani”. The “Bible”, cioè l’Economist, come viene chiamata tra gli addetti ai lavori la prestigiosa rivista inglese, ha dedicato due delle sue ultime copertine, “al mondo che verrà”. I titoli sono tutti un programma: “The shortage economy” (L’economia della penuria) e “The energy shock” (Lo shock energetico).

The shortage economy

I “leaders” (gli articoli di fondo) analizzano le cause, vecchie e nuove, della transizione difficile che aspetta il pianeta sulla strada della ripresa economica. Alcune le abbiamo già sintetizzate noi. Altre, invece, costituiscono gli elementi fondanti di una sorta di “work in progress”, che si sviluppa settimana dopo settimana, senza ricette predeterminate. Se la governabilità è figlia della prevedibilità degli scenari futuri, e questa, a sua volta, dipende dalla complessità dei sistemi, allora una “risposta flessibile”, anche in economia, è ciò di cui abbiamo bisogno.

Per questo, studiare da vicino la congiuntura britannica, in questa fase, ci può aiutare ad elaborare strategie che ci aiutino a superare i bottle-neck (colli di bottiglia) dello sviluppo post-pandemia

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