
Intendiamoci, la stessa cosa capiterà anche da noi e quindi, almeno per una volta, “Rule Britannia” diventa “Britannia docet”. Insomma, non dirige più, ma insegna. L’anno scorso, a marzo, il trend aveva toccato il suo minimo con lo 0,1%. Da allora, non ha fatto altro che risalire, esplodendo nel 2021 con il rallentare della pandemia e la ripresa della domanda. Ma il mercato globale ormai sbilanciato e la Brexit hanno fatto il resto. Anche la forzata scarsa mobilità dei lavoratori ha avuto conseguenze, sulla filiera degli approvvigionamenti. Che è stata profondamente sconvolta dal dilagare del coronavirus. Dodici mesi or sono, fare arrivare in Inghilterra un container costava 2 mila dollari. Oggi ne costa ben 18 mila, nove volte di più. Il mercato dei beni di consumo durevoli soffre pesantemente, non solo per i costi di trasporto, ma anche per l’aumento significativo del prezzo dell’energia, delle materie prime e dei semilavorati.
Per fare un esempio, nel 2020 un aspirapolvere, mediamente, aveva un prezzo di 49 sterline. Nel 2021, la stessa marca ne vale ben 79. Così, gonfiati all’origine, i costi dei beni di consumo, specie di quelli durevoli, scaricano lungo tutta la filiera gli aumenti. Dagli importatori, ai grossisti, ai dettaglianti è una litania di proteste. Che culminano, inevitabilmente, con quelle clamorose dei consumatori finali, costretti a pagare prezzi che vanno dal 20 al 80% in più, per il medesimo bene, rispetto a prima. Lo stesso vale per gli alimentari, con i prodotti agricoli e la carne in deciso aumento. Una considerazione particolare va fatta per i cibi conservati, che i supermercati sono stati costretti a rincarare, perché viene utilizzata CO2 per la loro stabilizzazione. Così, come imposto dai protocolli ambientali, le aziende che la impiegano devono pagare delle penali prestabilite, che fanno lievitare il prezzo finale del bene.
Non sta meglio il settore dei prodotti igienizzanti. Alcune grandi aziende, che utilizzano l’olio di palma per saponi e detergenti, hanno dichiarato di dover pagare prezzi esorbitanti per la carenza di manodopera in alcuni dei Paesi storicamente produttori. Come l’Indonesia, dove il costo di questo “raw material” si è alzato dell’82%. La stessa cosa con l’olio di soia in Brasile. Non si salva nemmeno il cibo per i gatti e per i cani che ormai costa quanto quello per gli “umani”. The “Bible”, cioè l’Economist, come viene chiamata tra gli addetti ai lavori la prestigiosa rivista inglese, ha dedicato due delle sue ultime copertine, “al mondo che verrà”. I titoli sono tutti un programma: “The shortage economy” (L’economia della penuria) e “The energy shock” (Lo shock energetico).
Per questo, studiare da vicino la congiuntura britannica, in questa fase, ci può aiutare ad elaborare strategie che ci aiutino a superare i bottle-neck (colli di bottiglia) dello sviluppo post-pandemia