Attentato a Damasco con 14 soldati di Assad uccisi: chi ha colpito e a preparare cosa?

Almeno 14 persone uccise e altre tre sono ferite questa mattina a Damasco in un attentato terroristico realizzato con due ordigni esplosivi contro un autobus dell’esercito siriano, riferisce l’agenzia di stampa statale SANA. Si tratta dell’attacco più sanguinoso degli ultimi anni nel Paese, scrive l’agenzia. «Due ordigni esplosivi hanno ha preso di mira un autobus che transitava sul ponte Raiss della capitale». Un terzo ordigno nella zona è stato disinnescato dagli artificieri.
Damasco era stata in gran parte risparmiata da questo tipo di attentati negli ultimi anni, soprattutto da quando l’esercito e le milizie alleate avevano riconquistato l’ultima importante roccaforte ribelle vicino alla capitale nel 2018.

La sporca guerra siriana di ritorno

Torna la sporca guerra siriana, è la domanda che fa tremare il mondo. Quei soldati di Assad uccisi nella capitale stessa, sfida diretta al leader nemico. Come prima risposta, il governo ha fatto cannoneggiare parte della provincia ribelle di Idlib, nel nord-ovest, con molte vittime anche tra i civili.

Era un bel pezzo che non capitavano sanguinosi “blitz” di questo tipo. E la cosa fa riflettere, perché sembrava essere stata raggiunta una sorta di tacita “tregua armata”

Tregua armata non scritta

Un cessate il fuoco non scritto, ma di cui qualcuno, più in alto, tirava le fila. Qualcuno di “molto ascoltato”, se era durata sino ad oggi. Insomma, se l’attentato di oggi non sembra proprio l’opera di “cani sciolti”, allora il vento è girato. Addirittura, secondo la BBC, dietro la mattanza potrebbero esserci i reduci dell’ex Isis. In funzione, però, più di manovalanza terroristica che di vera e propria, chiamiamola così, “direzione strategica”.

La sfida pensata altrove

No, quella sarebbe stata decisa da tutt’altra parte. Dove? Beh, visto il ginepraio in cui si è cacciata la Siria, non è facile dirlo. Tutti e nessuno, in teoria, potrebbero esserci dentro fino al collo. Allora, chiamatela pure diplomazia “parallela” o “asimmetrica”, ma la netta sensazione è che, in Medio Oriente, di questi tempi, quelle che spesso sembrano novità, vengono immediatamente smentite dai fatti.

Un accordo da nascondere

Si pensava a una sorta di “gentlemen’s agreement” complessivo tra Usa, Russia, Israele, Iran, Arabia Saudita e via discorrendo: io non ti tocco se tu non mi tocchi. Perché, per ora, le rogne crescono come montagne dall’altro lato del mondo, in Estremo Oriente e nel Sud-Est asiatico.

Stati Uniti – Israele

E invece no, qualcosa si muove. Più di qualcosa. La politica estera gioca a rimpiattino? Forse. In particolare, le filosofie e gli scenari globali che vengono elaborati da una grande democrazia come gli Stati Uniti e da un Paese come Israele (che, non dimentichiamolo, ha un governo di coalizione tenuto assieme con lo scotch), possono essere tortuosi.
Joe Biden ha alle spalle scuole di pensiero diverse, che fanno parte del suo stesso entourage. A volte si confrontano. Ma a volte si combattono. Chi vince impone la sua linea al Presidente, che sceglie, praticamente, “guidelines” già elaborate da altri.

‘Zigzagging foreign policy’

Risultato: una “zigzagging foreign policy”, come ebbe a scrivere efficacemente una volta l’Economist, analizzando il “decision making process” della politica estera americana.

Siria banco di prova per cosa?

Ergo, la Siria diventa cartina di tornasole, di un Medio Oriente in cui tutti cercano un equilibrio (precario) che non si trova. Alla Casa Bianca, in molti non si fidano di Putin e, in Arabia Saudita, tutti vogliono vedere gli ayatollah sotterrati. Figuratevi poi in Israele, dove si passano notti insonni, con l’incubo dell’incipiente atomica iraniana. Fatto sta che, al di là dei proclami, la cronaca parla chiaro: oltre alla devastante ripresa terroristica, la Siria ha visto un ritorno delle pesanti incursioni aeree israeliane, condotte con l’assistenza americana.

Israele-Usa a bombardare e la super flotta

Gli ultimi due “blitz” sono stati lanciati alcuni giorni fa, nell’area di Palmyra, contro la base aerea T-4 e contro la “Syrian Allies Operation Room”, delle milizie sciite pro-iraniane. Non solo. Ma il vero aumento della tensione, nella macro-area di crisi mediorientale, è testimoniato dall’ingresso nel Golfo Persico di una nuova squadra navale Usa “supertecnologica”, la Task Force 59, armata dei sofisticatissimi droni “Loyal Wingman”, velivoli “unmanned” (senza pilota), capaci di sfuggire alla rilevazione dei radar.

Droni ‘Wingman’ da portaerei

Guidati da “remoto”, sono armati con missili e specializzati in contromisure elettroniche e informatiche. Sono stati studiati come mezzi di supporto per gli avanzati caccia F-35. Secondo il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, gli ayatollah, però, stanno rispondendo. Addestrano milizie sciite scelte, provenienti da tutto il Medio Oriente, nella base di Kashan, a utilizzare droni iraniani. Dal canto suo, il Pentagono ha ordinato un vasto dispiegamento di “Wingman” nell’area compresa tra gli Stretti di Hormuz e di Bab-el Mandeb, che danno accesso al Golfo Persico e al Mar Rosso, verso Suez.

Insomma, come si può vedere, i pericoli di una nuova guerra nella regione, anziché diminuire sono aumentati. Adeguandosi, addirittura, alla ipertecnologia richiesta dai tempi.

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