
Era un bel pezzo che non capitavano sanguinosi “blitz” di questo tipo. E la cosa fa riflettere, perché sembrava essere stata raggiunta una sorta di tacita “tregua armata”
Un cessate il fuoco non scritto, ma di cui qualcuno, più in alto, tirava le fila. Qualcuno di “molto ascoltato”, se era durata sino ad oggi. Insomma, se l’attentato di oggi non sembra proprio l’opera di “cani sciolti”, allora il vento è girato. Addirittura, secondo la BBC, dietro la mattanza potrebbero esserci i reduci dell’ex Isis. In funzione, però, più di manovalanza terroristica che di vera e propria, chiamiamola così, “direzione strategica”.
No, quella sarebbe stata decisa da tutt’altra parte. Dove? Beh, visto il ginepraio in cui si è cacciata la Siria, non è facile dirlo. Tutti e nessuno, in teoria, potrebbero esserci dentro fino al collo. Allora, chiamatela pure diplomazia “parallela” o “asimmetrica”, ma la netta sensazione è che, in Medio Oriente, di questi tempi, quelle che spesso sembrano novità, vengono immediatamente smentite dai fatti.
Si pensava a una sorta di “gentlemen’s agreement” complessivo tra Usa, Russia, Israele, Iran, Arabia Saudita e via discorrendo: io non ti tocco se tu non mi tocchi. Perché, per ora, le rogne crescono come montagne dall’altro lato del mondo, in Estremo Oriente e nel Sud-Est asiatico.
E invece no, qualcosa si muove. Più di qualcosa. La politica estera gioca a rimpiattino? Forse. In particolare, le filosofie e gli scenari globali che vengono elaborati da una grande democrazia come gli Stati Uniti e da un Paese come Israele (che, non dimentichiamolo, ha un governo di coalizione tenuto assieme con lo scotch), possono essere tortuosi.
Joe Biden ha alle spalle scuole di pensiero diverse, che fanno parte del suo stesso entourage. A volte si confrontano. Ma a volte si combattono. Chi vince impone la sua linea al Presidente, che sceglie, praticamente, “guidelines” già elaborate da altri.
Risultato: una “zigzagging foreign policy”, come ebbe a scrivere efficacemente una volta l’Economist, analizzando il “decision making process” della politica estera americana.
Ergo, la Siria diventa cartina di tornasole, di un Medio Oriente in cui tutti cercano un equilibrio (precario) che non si trova. Alla Casa Bianca, in molti non si fidano di Putin e, in Arabia Saudita, tutti vogliono vedere gli ayatollah sotterrati. Figuratevi poi in Israele, dove si passano notti insonni, con l’incubo dell’incipiente atomica iraniana. Fatto sta che, al di là dei proclami, la cronaca parla chiaro: oltre alla devastante ripresa terroristica, la Siria ha visto un ritorno delle pesanti incursioni aeree israeliane, condotte con l’assistenza americana.
Gli ultimi due “blitz” sono stati lanciati alcuni giorni fa, nell’area di Palmyra, contro la base aerea T-4 e contro la “Syrian Allies Operation Room”, delle milizie sciite pro-iraniane. Non solo. Ma il vero aumento della tensione, nella macro-area di crisi mediorientale, è testimoniato dall’ingresso nel Golfo Persico di una nuova squadra navale Usa “supertecnologica”, la Task Force 59, armata dei sofisticatissimi droni “Loyal Wingman”, velivoli “unmanned” (senza pilota), capaci di sfuggire alla rilevazione dei radar.
Insomma, come si può vedere, i pericoli di una nuova guerra nella regione, anziché diminuire sono aumentati. Adeguandosi, addirittura, alla ipertecnologia richiesta dai tempi.