
Dopo il 1989 l’Europa ha incontrato per la prima volta culture e paesi diversi che esistevano però da secoli non nelle forme moderne, ma soprattutto o quasi esclusivamente nelle identità dei propri cittadini. Non si trattava quindi di veri e propri stati ‘occidentali’ come ci si attendeva (o si sperava), perché – prima ancora del congelamento operato dalla ‘guerra fredda’ – essi erano stati parti costitutive di grandi imperi e soprattutto non tutti erano ancora rappresentati da veri stati-nazione. Il secolo XIX, nelle diverse visioni nazionali radicate nei nuovi Stati, era stato insomma un’interazione tra i quattro grandi imperi scomparsi all’indomani della Prima Guerra mondiale (ottomano, russo, austriaco e tedesco) che li aveva coinvolti, spesso loro malgrado. Il XX secolo poi, che pure aveva fatto nascere alcuni stati indipendenti, a fine della seconda guerra mondiale li aveva collocati invece all’interno di uno schieramento politico non voluto, allontanandoli dallo sviluppo politico e culturale degli altri stati europei.
Una vera e propria cartina al tornasole dei problemi dei nuovi stati dell’Europa orientale era stata la questione delle minoranze. All’interno di un sistema imperiale le minoranze etniche o religiose – pur non essendo affatto libere di esprimersi appieno – godevano tuttavia di una trattamento diverso e di un’apparente tolleranza. Quanto questa tolleranza fosse spesso solo apparente lo ricorda ad esempio il diffuso antisemitismo in Polonia. Se in passato, quando cioè la Polonia era sotto il dominio zarista, la colpa era addossata ai russi e in particolare ai turbolenti cosacchi di guarnigione, le cose non cambiarono tra le due guerre o quasi peggiorarono: paradossalmente, pur esprimendo soddisfazione per aver cacciato la Russia zarista da Varsavia, la propaganda antisemita polacca andò a ripescare un falso storico come i famigerati ‘Protocolli dei Savi di Sion’ prodotti invece proprio dalla polizia segreta russa. Qualcosa di analogo accadde anche negli effimeri stati baltici, che si trovarono spesso tra l’incudine russa e il martello tedesco, covando tuttavia risentimenti contro le minoranze. Nemmeno la Cecoslovacchia, unico paese realmente democratico tra le due guerra, brillò nel rispetto delle altre minoranze presenti e soprattutto nei confronti di quella ungherese.
Non molto sviluppati in senso economico e soggetti a frequenti crisi, molti stati cercarono tra le due guerre le risposte nel nazionalismo più acceso, dimenticando che, per le loro stesse dimensioni, erano soprattutto interdipendenti tra loro per produzioni e mercati. Un conflitto economico che nasceva per questioni magari doganali rischiava di produrre conseguenze gravi, nonostante la banalità dell’origine. Sebbene oggi il cosiddetto gruppo di Visegrad cerchi di accreditare l’immagine di un gruppo compatto e autonomo di paesi dell’Europa orientale all’interno dell’Unione europea, la realtà è alquanto diversa: non esiste una visione politica comune e i temi di contrasto – soprattutto economico – sono maggiori di quelli condivisi. Analoga considerazione vale per l’appartenenza alla NATO: in Polonia discende dall’antico sentimento anti-russo, ma in Ungheria non si nascondono simpatie per la Cina, cosa che difficilmente potrebbe incontrare l’approvazione dell’Alleanza Atlantica. Antichi rancori e frustrazioni più recenti sembrano ancora oggi trovare nel nazionalismo e nel sovranismo le soluzioni a portata di mano.
Da quando nel 1994 il presidente cecoslovacco Havel invitava a considerare l’Unione europea non un mostro burocratico, ma una «nuova comunità umana capace di espandere le libertà» sembra sia trascorsa un’epoca.