Il lavoro come base culturale del comunitarismo

Il mio amico e collega Guido Garau mi ha chiesto quali rischi corrano le piccole comunità che sognano un riscatto attraverso il turismo. E poi quale fosse la giusta ricetta per il rilancio dei borghi rurali. Camminando lungo le stradine del Sulcis, sospeso sul confine tra mare e cielo, in questi giorni di clamore mediatico, ho preso due appunti mentali per rispondergli.

Fossi il sindaco di un paesino dell’entroterra, in Sardegna come in Toscana o in Abruzzo, metterei al primo posto il lavoro e il riconoscimento del lavoro come fondamento culturale della comunità. Non il lavoro portato in dote da qualcuno, né quello votato al cemento facile e distruttivo, ma quello che può nascere dalla cooperazione e della cultura. Dalla conoscenza del territorio, della sua storia, dei saperi e delle differenze, per rendere ogni azione legata al lavoro un atto politico e culturale: rivendicazione di differenze e nello stesso tempo capacità di aprirsi al futuro, alle cose nuove, all’incontro con il diverso da noi. A un incontro che diventa dono.

Senza amore per il territorio, senza consapevolezza del proprio ruolo di cittadini attivi, sapienza e capacità di inventare, la comunità non ha senso. È in balia della sorte e della speranza che il turismo poggi lo sguardo e porti risorse, piegando storia e bellezza, passioni e amori, valori e umanità alla realizzazione plastica di un immaginario indotto, di un processo di spoliazione ulteriore, di svendita al migliore offerente.

Ecco perché il lavoro è riscatto civile delle piccole comunità. E cultura profonda, che possa agire nel coltivare, nel tempo e nel bene comune. Per difendere l’ambiente e i boschi, per realizzare le cose essenziali per vivere semplicemente, per mettere insieme teste e risorse e creare indipendenza dal conformismo, creare relazioni paritarie e apertura, non chiusura mentale. Che poi – detto tra noi – è l’unico modo per attrarre viaggiatori e curiosi, innamorati del coraggio, investitori che amano il rispetto e non cercano un format. Per agire nella tradizione rigenerandola costantemente, non museificandola né rendendola penoso folklore in maschera per turismo di massa.

L’alternativa al lavoro per i giovani è la fuga o la resa.

Quali ipotesi di lavoro costruire? Non esiste una ricetta uguale per tutti, dobbiamo uscire dal conformismo, spesso mediatico, che rende tutto un format di successo o niente. Ogni territorio ha la sua vocazione e potenzialità. E in questi tempi frettolosi serve il tempo per coltivare cultura, con cura e attenzione. Non basta seminare qualche idea o sperare che un guru abbia una soluzione. Occorre visione politica. Ed essere sovversivi, rovesciando ciò che sembra intangibile e immutabile. Insorgendo, perché il contrario di insorgere è stare fermi e seduti al proprio posto.

Quindi, citando Simone Weil, fare del pensiero un’azione. Non limitarsi alle azioni indotte dalla spettacolarizzazione della società, ma ponendo il pensiero critico al centro del discorso, farne un agire civile.

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