Sarajevo, Bosnia, luglio 1992. Casse di proiettili vuote per giocare a serbi contro bosniaci

Questo articolo di Faruk Sehic, poeta, scrittore e giornalista bosniaco, fa parte di una serie di Voxeurop dedicata ai trent’anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia cominciata nel giugno del 1991 con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia, e riportata da Internazionale.
Per Faruk Sehic la data del suo personale cataclisma è il 21 aprile 1992. «Quel giorno estremisti serbi armati, sostenuti dall’ex armata popolare jugoslava, attaccarono Bihac, la mia città, in Bosnia Erzegovina». Erano i nostri “vicini”, che si erano ritirati dalla città in un’azione concertata per attaccarci dalle montagne circostanti.
Il 21 aprile molte città al confine orientale con la Serbia (che allora si chiamava ancora Jugoslavia) erano già state distrutte. Nel momento in cui Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina lasciarono la Jugoslavia, lo stato cessò nominalmente di esistere nelle nostre menti.
«Si era rivoltato contro di noi, noi che l’avevamo amato e che avevamo contribuito al suo successo in ogni modo possibile».
Il test integrale, per rabbrividire o commuoversi – https://www.internazionale.it/opinione/faruk-ehic/2021/09/14/bosnia-erzegovina-guerra-civile

Giugno 1991, 21 aprile 1992

«Ogni cittadino della Bosnia Erzegovina porta questi due orologi, queste due cronologie, nel profondo della coscienza, nella mente, nel corpo e nel cuore».
«Il primo orologio ha cominciato a ticchettare nel momento in cui tutto è cominciato ufficialmente; il secondo è un orologio più importante, più personale, che misura il tempo dal momento in cui siamo stati cacciati dalle nostre case».
«Misura il tempo da quando siamo diventati rifugiati, o conta le ore dalla nostra ferita personale, come la morte in guerra di qualcuno a noi caro».

Orologio apocalittico

«Questo orologio personale è un orologio apocalittico. Ogni persona ne ha uno. La guerra è l’apocalisse, nessuno ce lo disse quando scoppiò. Così come nessuno, dopo la guerra, ci disse che vivevamo nell’era post-apocalittica. Tutto ciò che avevamo per definire il tipo di società in cui vivevamo era un termine tecnico – “società post-bellica” – assegnatoci da persone ben intenzionate, residenti all’estero».
«L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno».

L’apocalisse sui valori della società

«L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno. Il momento in cui tutto ciò che è spaventoso, anormale e terribile diventa normale, socialmente accettabile, perfino desiderabile».
«Avviene silenziosamente, invisibilmente. Il lettore attento di giornali può intravederne i segni. Troppo spesso comincia con la disumanizzazione di certi gruppi sociali, individui o interi popoli».

La storia di Željko Sikora

Per esempio, prima dello scoppio della guerra del 1992, il giornale Kozarski Vijesnik di Prijedor (città teatro di pulizia etnica) aveva pubblicato una serie di articoli che disumanizzavano i residenti di nazionalità bosniaca, croata e altre. Kozarski Vijesnik e Radio Prijedor pubblicarono servizi su un ginecologo tirocinante, il dottor Željko Sikora, che secondo i loro giornalisti aveva “eseguito aborti su donne serbe incinte di maschi e castrato neonati serbi”. Nonostante fosse di etnia ceca, il medico era considerato un croato, poiché i nazionalisti serbi di allora equiparavano tutti i croati agli ustascia (come si chiamavano i fascisti croati durante la seconda guerra mondiale).

Il nazionalismo assassino

Il quotidiano di Belgrado Politika Ekspres lo soprannominò “il medico mostro”. Il risultato di queste accuse fatte circolare sui mezzi d’informazione fu che Sikora morì assassinato nel campo di concentramento di Keraterm, un destino a cui andarono incontro altre migliaia di suoi concittadini dall’appartenenza etnica “sbagliata” in altri campi. Il suo corpo fu trovato vicino a un cassonetto. Prima di essere ucciso era stato picchiato ogni giorno».

Disumanizzazione e demonizzazione di gruppi

La disumanizzazione e la demonizzazione di gruppi, individui e interi popoli avveniva molto prima dello scoppio della guerra. L’obiettivo era preparare la gente comune a considerare gli omicidi, i massacri e infine il genocidio come eventi perfettamente normali.

Dolore da ‘arto fantasma’

“Dolore da arto fantasma” è il termine medico per indicare il dolore che si avverte dove c’era un pezzo di corpo che non abbiamo più, come una gamba o un braccio amputati. Noi siamo stati amputati delle nostre vite precedenti alla guerra e questi dolori li porteremo con noi fino alla tomba.

Bosniacchi musulmani cavie

«Siamo stati le cavie nello sviluppo dell’islamofobia su scala globale che vediamo all’opera ancora oggi».
«Non ero un volontario, prendere le armi non fu una questione di libero arbitrio: fui costretto a combattere per la sopravvivenza. Nell’aprile del 1992 eravamo circondati da tutti i lati: non era possibile fuggire dalla guerra e fare il pacifista saccente che sentenziava sulle parti del conflitto da una distanza di sicurezza».

Poesie, racconti e Ptsd

«Ho scritto poesie, racconti, un romanzo e molti articoli sulle mie esperienze di soldato, e sarebbe superfluo ripetere tutto. Facevo parte dell’esercito della Bosnia Erzegovina, non di un esercito “musulmano” come ci chiamavano i nostri nemici e gli osservatori internazionali negli anni tra il 1992 e il 1995. A un certo punto sono stato gravemente ferito al piede sinistro e ho passato sei mesi con le stampelle. Poi sono tornato alla mia unità, riprendendo i compiti che avevo svolto prima di essere ferito. Sono diventato capo del mio plotone e verso la fine della guerra guidavo 130 uomini in azioni offensive.

Come la maggior parte delle persone in Bosnia Erzegovina, soffrivo di Ptsd, disturbo da stress post-traumatico, i cui effetti si fanno sentire a guerra finita. Ho ricevuto diverse decorazioni per le mie imprese militari, durante e dopo la guerra».

Olympia Monica, come Olivetti 22

Quando la guerra è finita ho cercato di tornare quello che ero prima, uno studente di veterinaria al terzo anno. Ma ci rinunciai e m’iscrissi alla facoltà di lettere. Cominciai a scrivere ogni giorno su una macchina da scrivere Olympia Monica del 1967. Volevo diventare uno scrittore, e ci sono riuscito.

Lettere alla cannella

«Il manoscritto del mio romanzo Cimetna pisma (Lettere alla cannella) contiene il seguente passaggio, che illustra il tipo di mondo in cui vivevamo dopo che la guerra era finita, solo sulla carta: Le ferite contano, ed è importante prendersene cura, sia le nostre sia quelle della città. Il fatto che non abbiamo prestato attenzione all’odio non significa che non abbia lavorato in silenzio. Gli orrori della guerra ci hanno curato dall’odio.

Ma chiunque abbia sperimentato la guerra sa che l’odio è instillato nelle persone per facilitare obiettivi diversi del conflitto: la lotta per il territorio e la ricchezza che ne deriva.

Il male non è mai banale

«In molte persone l’odio c’è già e non ha bisogno di essere istigato. Il male ha nome e cognome, colore degli occhi, dita, peli sul petto, voglie, nei, cicatrici. Il male è familiare, ama i bambini, il male è socievole, frequenta i bar, ha un grande sorriso e ancora tutti i denti. Questo è il male grigio, piccolo-borghese. C’è anche un altro male, un male ubriaco, un lumpenproletariat a cui mancano i denti. Il male è difficile da classificare in modo chiaro, sfida la descrizione e la classificazione».

Sopravvissuti ad una guerra

«Questo estratto mostra come l’orologio apocalittico continua a ticchettare anche dopo che l’apocalisse è ufficialmente finita. Continua a fare il suo lavoro. Sopravvivere a un’apocalisse è più che sopravvivere fisicamente alla guerra e alla distruzione intorno. Molte persone credono solo di essere sopravvissute, in realtà la guerra le ha svalutate nella loro essenza e gli ha reso impossibile continuare a vivere in tempo di pace». Sono zombie di guerra, perché non riusciranno mai a tornare indietro dalla guerra, che domina le loro menti, i loro nervi.

Chi non ha esperienza di guerra o fuga, nessuna esperienza traumatica, ha il grande privilegio di ascoltare i sopravvissuti, affinché non ci sia mai più la guerra, per nessuno. Questa è una speranza utopica, che forse un giorno si avvererà. È un’utopia in cui credo fermamente

Condividi:
Altri Articoli
Remocontro