
«Questo orologio personale è un orologio apocalittico. Ogni persona ne ha uno. La guerra è l’apocalisse, nessuno ce lo disse quando scoppiò. Così come nessuno, dopo la guerra, ci disse che vivevamo nell’era post-apocalittica. Tutto ciò che avevamo per definire il tipo di società in cui vivevamo era un termine tecnico – “società post-bellica” – assegnatoci da persone ben intenzionate, residenti all’estero».
«L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno».
«L’apocalisse non è solo la distruzione di città, villaggi, ponti, reparti di maternità e cimiteri. Per me è il momento in cui i valori della società civile vengono meno. Il momento in cui tutto ciò che è spaventoso, anormale e terribile diventa normale, socialmente accettabile, perfino desiderabile».
«Avviene silenziosamente, invisibilmente. Il lettore attento di giornali può intravederne i segni. Troppo spesso comincia con la disumanizzazione di certi gruppi sociali, individui o interi popoli».
Per esempio, prima dello scoppio della guerra del 1992, il giornale Kozarski Vijesnik di Prijedor (città teatro di pulizia etnica) aveva pubblicato una serie di articoli che disumanizzavano i residenti di nazionalità bosniaca, croata e altre. Kozarski Vijesnik e Radio Prijedor pubblicarono servizi su un ginecologo tirocinante, il dottor Željko Sikora, che secondo i loro giornalisti aveva “eseguito aborti su donne serbe incinte di maschi e castrato neonati serbi”. Nonostante fosse di etnia ceca, il medico era considerato un croato, poiché i nazionalisti serbi di allora equiparavano tutti i croati agli ustascia (come si chiamavano i fascisti croati durante la seconda guerra mondiale).
Il quotidiano di Belgrado Politika Ekspres lo soprannominò “il medico mostro”. Il risultato di queste accuse fatte circolare sui mezzi d’informazione fu che Sikora morì assassinato nel campo di concentramento di Keraterm, un destino a cui andarono incontro altre migliaia di suoi concittadini dall’appartenenza etnica “sbagliata” in altri campi. Il suo corpo fu trovato vicino a un cassonetto. Prima di essere ucciso era stato picchiato ogni giorno».
«Siamo stati le cavie nello sviluppo dell’islamofobia su scala globale che vediamo all’opera ancora oggi».
«Non ero un volontario, prendere le armi non fu una questione di libero arbitrio: fui costretto a combattere per la sopravvivenza. Nell’aprile del 1992 eravamo circondati da tutti i lati: non era possibile fuggire dalla guerra e fare il pacifista saccente che sentenziava sulle parti del conflitto da una distanza di sicurezza».
«Ho scritto poesie, racconti, un romanzo e molti articoli sulle mie esperienze di soldato, e sarebbe superfluo ripetere tutto. Facevo parte dell’esercito della Bosnia Erzegovina, non di un esercito “musulmano” come ci chiamavano i nostri nemici e gli osservatori internazionali negli anni tra il 1992 e il 1995. A un certo punto sono stato gravemente ferito al piede sinistro e ho passato sei mesi con le stampelle. Poi sono tornato alla mia unità, riprendendo i compiti che avevo svolto prima di essere ferito. Sono diventato capo del mio plotone e verso la fine della guerra guidavo 130 uomini in azioni offensive.
Come la maggior parte delle persone in Bosnia Erzegovina, soffrivo di Ptsd, disturbo da stress post-traumatico, i cui effetti si fanno sentire a guerra finita. Ho ricevuto diverse decorazioni per le mie imprese militari, durante e dopo la guerra».
Quando la guerra è finita ho cercato di tornare quello che ero prima, uno studente di veterinaria al terzo anno. Ma ci rinunciai e m’iscrissi alla facoltà di lettere. Cominciai a scrivere ogni giorno su una macchina da scrivere Olympia Monica del 1967. Volevo diventare uno scrittore, e ci sono riuscito.
«Il manoscritto del mio romanzo Cimetna pisma (Lettere alla cannella) contiene il seguente passaggio, che illustra il tipo di mondo in cui vivevamo dopo che la guerra era finita, solo sulla carta: Le ferite contano, ed è importante prendersene cura, sia le nostre sia quelle della città. Il fatto che non abbiamo prestato attenzione all’odio non significa che non abbia lavorato in silenzio. Gli orrori della guerra ci hanno curato dall’odio.
Ma chiunque abbia sperimentato la guerra sa che l’odio è instillato nelle persone per facilitare obiettivi diversi del conflitto: la lotta per il territorio e la ricchezza che ne deriva.
«In molte persone l’odio c’è già e non ha bisogno di essere istigato. Il male ha nome e cognome, colore degli occhi, dita, peli sul petto, voglie, nei, cicatrici. Il male è familiare, ama i bambini, il male è socievole, frequenta i bar, ha un grande sorriso e ancora tutti i denti. Questo è il male grigio, piccolo-borghese. C’è anche un altro male, un male ubriaco, un lumpenproletariat a cui mancano i denti. Il male è difficile da classificare in modo chiaro, sfida la descrizione e la classificazione».
Chi non ha esperienza di guerra o fuga, nessuna esperienza traumatica, ha il grande privilegio di ascoltare i sopravvissuti, affinché non ci sia mai più la guerra, per nessuno. Questa è una speranza utopica, che forse un giorno si avvererà. È un’utopia in cui credo fermamente