
Annunciato per inizio settembre e sino ad oggi ancora fantasma per le cronache internazionali, il summit tra i ministri degli esteri dei paesi vicini (tra cui Egitto, Tunisia, Sudan, Ciad e Niger) per discutere della situazione e in particolar modo della gestione e del ritiro dei mercenari “a piede libero” ( quelli importati dalla Turchia, i russi del Gruppo Wagner e non soltanto). Un fenomeno che rappresenta un grosso problema sociale per tutta la zona del Sahel, la fascia semiarida sotto il Sahara.
Tra le nazioni che hanno maggiormente subito questa transizione, c’è il Mali. Remocontro ne ha scritto ieri (https://www.remocontro.it/2021/09/16/sahel-conteso-arrivano-i-mercenari-russi-in-mali-e-la-francia-uccide-il-capo-dellislamic-state/). Il paese è stato teatro di numerose ribellioni nel corso degli anni (due colpi di Stato e distanza di mesi, ‘golpe sul golpe’). I combattenti –sia tuareg che jihadisti– sono ex mercenari che si sono fatti le ossa in Libia (armati dell’arsenale di Gheddafi) e alla fine sono riusciti a occupare la zona settentrionale del Mali, mettendo in stallo il governo nella capitale Bamako.
Da allora i gruppi estremisti si sono radicati sempre di più nella regione, trasformandola in uno dei fronti più importanti per Al Qaeda e per l’Isis. Le cellule terroristiche hanno sfruttato le tensioni etniche esistenti in entrambi i paesi e hanno riempito i vuoti lasciati da uno Stato negligente. Oltre a questo, in Mali e in tutto il resto del Sahel «l’economia del contrabbando è stata in grado di espandere la sua capacità e la sua latitudine logistica e operare con maggiore impunità», come aveva de nunciato in un rapporto del 2018 la ‘Global Initiative Against Transnational Organized Crime’.
Negli anni successivi, gli estremisti hanno usato l’arsenale ereditato dalle forze militari di Gheddafi per espandere le loro attività nel Sahel. «È ancora oggi la più grande riserva incontrollata di munizioni al mondo», afferma David Lochhead, ricercatore alla Small Arms Survey, un’organizzazione di ricerca, monitoraggio e peacekeeping delle Nazioni Unite. Lochhead spiega come l’Unione Europea non avesse previsto le conseguenze del terremoto sociale e politico che è seguito alla caduta del dittatore libico: e per correre ai riparti, ha speso miliardi di euro in sicurezza senza risultati.
Lo scorso anno, la Francia ha speso più di 900 milioni di euro nell’operazione Barkhane, la sua missione militare nel Sahel, che ha coinvolto circa 5mila militari per reprimere l’insurrezione nel nord del Mali nel 2013. Sul fronte del flusso dei migranti, di prioritario interesse italiano, l’Unione europea ha stabilito una sorta di “nuova frontiera” nel mezzo del deserto del Niger, pagando ala quel governo 1,6 miliardi di euro in aiuti tra il 2016 e il 2020, per bloccare i percorsi secolari che attraversano il Sahara. Risultato, percorsi più pericolosi con più morti ma non con meno migranti.
«L’esodo dei mercenari libici dopo la morte di Gheddafi ha innescato un effetto domino», segnala Linkiesta. 14mila/15mila uomini ben addestrati e senza nulla da fare. «Ha creato uno sciame di persone che scendeva nell’Africa subsahariana verso paesi che non erano preparati», spiega Bisa Williams, ambasciatrice americana in Niger tra il 2011 e il 2013. Per alcuni di questi soggetti, la disponibilità di risorse e l’alta formazione dei gruppi terroristici ha rappresentato un’offerta allettante. «E così, a poco a poco, si sono affiliati, alimentando la ‘forza lavoro’ di Stato Islamico del Sahel e Al Qaeda».
Nel vicino Ciad, il leader autoritario Idriss Déby aveva affrontato per anni le ribellioni, molte delle quali partite dalla Libia. Déby, presidente con colpo di stato dal 1990, aveva consolidato la sua posizione grazie al sostegno politico e finanziario ricevuto dall’Europa, che lo considerava il principale baluardo contro i jihadisti nel Sahel, tra i cui gruppi più fondamentalisti e sanguinosi della zona c’è Boko Haram, la cellula nigeriana. Ma Il 20 aprile Déby è stato ucciso da una compagine ciadiana formata da ex mercenari di Khalifa Haftar, generale ribelle della Libia orientale.
Oggi, risuona con fare profetico una dichiarazione di Déby risalente al 2011. In quell’occasione, poco prima dei moti libici, il capo di stato aveva affermato: «se Gheddafi se ne va, avremo un sacco di guai».
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