
In economia è scoppiata una specie di terza guerra mondiale. Avevamo già lanciato l’allarme esaminando, con la lente d’ingrandimento, le ragioni che stavano portando la Cina a rientrare in violenta rotta di collisione con gli Stati Uniti sul futuro di Taiwan. Reclamata da Pechino e considerata come una “provincia ribelle”. Anche quello, ma la verità attuale è che sotto il contenzioso diplomatico si agitano gli interessi per accaparrarsi il controllo del primo produttore mondiale di microchip. Appunto Taiwan.
Le catastrofi, spesso, sono il risultato finale di una catena di tanti piccoli e grandi errori. Che sta succedendo? Capita una cosa di cui pochi parlano in Italia, perché sembra solo un argomento da aule universitarie e da negozio di elettronica. Nel mondo, come già anticipato, siamo a corto di microchip. Cioè quei quadratini di silicio, con i circuiti prestampati, che fanno funzionare quasi tutto quello che oggi si muove e serve gli esigentissimi cittadini del Terzo millennio.
Molti dei grandi strateghi del capitalismo in doppio petto, tutti presi dalla conta degli utili aziendali, si sono dimenticati di capire che i microchip sono una cosa seria. Le macchine per produrli devono essere “intelligenti” (e costano un botto), agli operai impiegati è chiesto un lavoro di cesello e di corteccia cerebrale e i dirigenti d’azienda non devono sbagliare una mossa. Generalmente si tratta di impianti industriali sul modello 4.0, che ottimizzano la produzione in tempo reale con un’analisi comparativa, grazie a software di ultima generazione, dei “big data”.
I Paesi pionieri, che hanno utilizzato feedback cibernetico nella manifattura e nella realizzazione di semiconduttori, a partire dal 2015, sono stati la Germania e gli Stati Uniti. Ma poi, con una sorta di effetto imitativo, è stato tutto il Sud-est asiatico, con in testa Cina e Taiwan a modernizzare il settore manifatturiero, utilizzando l’approccio “4.0” e guardando persino oltre. Taipei è così diventata la prima produttrice mondiale di microchip, inondando il mercato. A ruota l’ha seguita la Cina, che ora naturalmente manifesta particolare interesse a un’eventuale “hongkongizzazione” di Formosa.
Il vero problema è che negli ultimi anni i microchip sono diventati un semilavorato indispensabile non solo per l’elettronica, ma anche per tutti quei macchinari che adottano circuiti stampati. E qui arrivano le dolenti note. La Toyota, la Ford, la General Motors e molte altre case automobilistiche hanno dovuto tagliare la produzione per carenza di semiconduttori. Lo stesso sta accadendo all’industria dei computer, dei telefonini, degli apparecchi radiotelevisivi e delle loro parti di ricambio. Le cause, come abbiamo detto all’inizio, sono diverse e si sommano.
Cattiva programmazione, pessima valutazione del ciclo delle scorte, aumento abnorme dei rischi dei noli dei trasporti e del costo vivo (per i container si parla di un incremento, addirittura, di 10 volte dall’Asia orientale all’Europa), effetto-spugna della domanda cinese, che è salita in maniera esponenziale. E persino, qualche calamità. Due grosse fabbriche distrutte in Texas per un incendio e una in Giappone per uragano. E poi, last but not least, il Covid-19. Se va bene, dicono gli analisti e gli esperti più autorevoli, ci vorranno quasi due anni per colmare il divario oggi esistente tra domanda e offerta di microchip.
Nel frattempo, ci penserà l’incremento dei prezzi di tutti i beni durevoli ad alta tecnologia a calmierare il mercato.