
Da parecchio tempo Xi Jinping sta introducendo un “culto della personalità” simile a quello in vigore con Mao Zedong. Le sue immagini, proprio come quelle del predecessore, diventano sempre più eteree e spesso circondate da un’aureola.
Inoltre è uscita un’opera in tre volumi tradotta, proprio come quelle di Mao, in più di 40 lingue, e pubblicata in Italia da Giunti. Interessante notare che, per l’appunto, “il pensiero di Xi” è ora materia d’insegnamento obbligatorio nelle scuole, e questo fatto rammenta da vicino il culto di Mao all’apice del suo potere.
Ma non basta. La leadership cinese pare intenzionata, seguendo sempre le indicazioni di Xi Jinping, a modificare la struttura dello Stato togliendo potere ai tanti miliardari emersi nella Repubblica Popolare in questi ultimi decenni.
Non tutti lo sanno, ma nella classifica mondiale dei “tycoons” la Cina tallona ormai da vicino gli Stati Uniti. Secondo l’ultima rilevazione, infatti, i miliardari americani sono 724, quelli cinesi 626.
Una situazione impensabile ai tempi di Mao Zedong, quando la Cina Popolare era già un gigante demografico (e forse politico), ma assai povera dal punto di vista economico.
Com’è noto, la grande svolta avvenne ai tempi di Deng Xiaoping il quale, dopo la morte del Grande Timoniere e la fine della celebre “Rivoluzione culturale”, spronò apertamente i concittadini ad accumulare ricchezza mettendo in soffitta i pregiudizi ideologici marxisti.
Tuttavia il Partito (o, ancor meglio, il Partito/Stato) non ha mai rinunciato alla funzione di controllo, anche perché il potere è interamente nelle sue mani, senza residui di alcun tipo.
Da parecchio tempo si ha l’impressione – per non dire la certezza – che con la presidenza di Xi Jinping le lancette dell’orologio stiano tornando indietro.
La leadership comunista, in altri termini, è fortemente preoccupata dall’eccessiva ricchezza dei tanti plurimiliardari ora presenti nel territorio, e teme che essi la usino per condizionare il Partito o, addirittura, per imporgli strategie non gradite.
Di qui i limiti e i paletti che Pechino sta progressivamente imponendo ai vari “tycoons”. La strada è stata aperta con l’emarginazione di Jack Ma, fondatore e proprietario del gigante dell’e-commerce “Alibaba”, reo di aver criticato in pubblico il sistema bancario e creditizio della Repubblica Popolare.
Nonostante fosse considerato assai vicino a Xi e al suo gruppo dirigente, Jack Ma ha visto ridimensionare in breve tempo le sue aziende subendo perdite molto ingenti in Borsa.
Poi è toccato, con un crescendo impressionate, a molti altri super ricchi i quali, però, avendo in mente la punizione inflitta al loro collega, si sono subito adeguati alle nuove direttive del Partito.
E’ ormai chiaro che Xi Jinping punta a una sorta di redistribuzione del reddito, imponendo ai miliardari del Dragone di mettere a disposizione delle fasce svantaggiate della popolazione una parte delle loro fortune.
Molti di essi, obbedendo subito alle direttive del Partito, hanno quindi fatto confluire somme ingenti in fondi da loro stessi creati in brevissimo tempo.
Tali somme dovrebbero essere destinate a migliorare il “welfare” nazionale, e a colmare almeno in parte il divario economico che separa con forza le grandi metropoli, sempre più simili a quelle occidentali, dalle campagne rimaste per lo più in condizioni di grave arretratezza.
Si tratta di un progetto ambizioso sulla cui rapida realizzazione Pechino sta puntando moltissimo. Il nuovo piano quinquennale, per esempio, si baserà in gran parte proprio su si esso.
Occorre tuttavia notare due fatti. Agendo in questo modo, Xi e il suo gruppo dirigente vogliono dimostrare che la Repubblica Popolare è tuttora un Paese comunista. Caratteristica che media e politici occidentali contestavano da tempo.
In secondo luogo, è in atto una grande campagna mediatica per convincere i cittadini che il merito della suddetta redistribuzione del reddito è merito esclusivo del Partito.
Con questo la dirigenza intende mantenere la pace e la coesione sociale, che dava segni di crisi a causa delle conseguenze della pandemia di Covid 19. Il rallentamento del Pil, infatti, comincia a pesare anche in Cina, e non solo in Occidente.
Anche perché il virus non è affatto stato sconfitto – come Xi aveva proclamato trionfalmente – e gli ultimi “lockdown” hanno causato proteste giudicate pericolose dalla leadership.