Cina, il virus ferma i container e il commercio internazionale va in tilt
Cina, il virus ferma i container e il commercio internazionale va in tilt

Se frena l’economia cinese sono guai per tutti, e già adesso le restrizioni sanitarie in Cina fermano i container. Merci ferme al porto di Ningbo, nell’Est della Cina, il terzo più grande al mondo chiuso per un contagio: ritardi e prezzi alle stelle per le spedizioni verso Usa e Ue

Chiuso per virus

Come già si sapeva, e a differenza di quanto sostengono le autorità, in Cina il Covid 19 non è affatto stato debellato. Nuovi focolai sono apparsi in numerose città, tra cui Nanchino e la stessa Pechino.
La notizia che più colpisce, tuttavia, è che simili focolai sono riapparsi anche in alcuni porti molto importanti, poiché da essi partono le enormi quantità di merci che la Repubblica Popolare esporta in tutto il mondo, inclusi Usa e Ue.

Ningbo e lockdown alla cinese

Caso eclatante è Ningbo nello Zhejiang, il terzo scalo merci più grande della Cina e base, per l’appunto, dell’export pressoché globale che la Repubblica Popolare conduce da decenni, chiuso per un contagio.
E’ noto che, quando scoprono un focolaio, le autorità di Pechino adottano un atteggiamento assai più pesante di quello in uso, per esempio, in America e in Europa. Scatta subito il lockdown totale, che viene fatto rispettare con la forza. Anche perché, nel Paese, dimostrazioni no vax o anti-lockdown – come quelle da noi così frequenti – sono rigorosamente proibite e, ad ogni minimo cenno, vengono subito stroncate senza tanti complimenti.

Europa, America e il Made in China

A causa di uno dei suddetti focolai, il grande porto di Ningbo è stato totalmente bloccato, con un grande numero di portacontainer già cariche ferme nello scalo.
Di conseguenza cominciano a scarseggiare in Europa, in America e altrove merci “made in China” e non facilmente reperibili altrove. Si rischia, tra l’altro, di trovare gli scaffali vuoti nei supermercati proprio in occasione delle festività natalizie.
Tantissime le tipologie di merci coinvolte. Si va dall’elettronica all’arredamento, dal cibo ai componenti per personal computer e smartphone. Ma sono coinvolti pure i giocattoli che, com’è noto, vengono per la maggior parte costruiti nella Repubblica Popolare.

Scaffali e tasche cinesi vuoti?

Parrebbe, quest’ultimo, un settore meno importante e strategico di altri. Tuttavia non è così. Si pensi alle difficoltà dei genitori che non possono esaudire le richieste di regali natalizi da parte dei figli.
La situazione, ovviamente, è grave tanto per i Paesi che importano quanto per la stessa Repubblica Popolare, che proprio sull’enorme attività di export ha basato negli ultimi decenni la sua crescente prosperità economica e un aumento del Pil che non ha eguali nel mondo.

Piano quinquennale a rischio

Evidente la preoccupazione di Pechino. Se la situazione attuale si protraesse per lungo tempo, il governo sarebbe costretto a rivedere al ribasso le stime della crescita e a modificare – in senso negativo – gli obiettivi dell’ultimo piano quinquennale che si basava si previsioni molto ottimistiche.
Altra conseguenza del blocco dei porti cinesi è il grande aumento del costo dei trasporti e il parallelo ritardo nelle consegne. Basti pensare che mentre in precedenza un container viaggiava da Shanghai a Genova per circa 2.000 euro, ora ce ne vogliono quasi 13.000 per coprire la stessa tratta. Per non parlare dei ritardi, ora più che raddoppiati.

Se frena l’economia cinese

E’ chiaro che tale situazione rischia seriamente di compromettere la crescita dell’economia non solo cinese, ma globale, con tutte le conseguenze del caso. Alcuni pensano di sostituire la Repubblica Popolare con altri Paesi esportatori, per esempio alcuni nell’Europa dell’Est.
Questi ultimi, tuttavia, non posseggono assolutamente le capacità produttive della Cina e, pertanto, il rischio di trovare gli scaffali dei negozi vuoti nel periodo natalizio diventa sempre più concreto.

Decoupling trumpiano

Ancora una volta, quindi, occorre constatare l’illusorietà del progetto trumpiano del “decoupling”, volto a staccare l’economia americana (e occidentale in genere) da quella cinese. Basta il blocco di alcuni porti del Dragone per farci capire che, almeno ora, non si può fare.

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